Roma - Come da copione - peraltro noto, anche se non a tutti, dalla sera prima - alle 17,30 di ieri l’aula del Senato ha respinto l’emendamento Manzione, quello che rischiava di far cadere il governo. Con 156 voti contro 155 e 2 astenuti, che secondo il regolamento di Palazzo Madama valgono come no e dunque si sommano ai 156. L’opposizione è insorta tuonando contro il «soccorso rosso» dei senatori a vita, e ha abbandonato compatta l’aula. Tant’è che la riforma della riforma Castelli è stata approvata un’ora dopo, e tutti han potuto far ritorno a casa scansando un doloroso sabato di lavoro. «Qualcuno non ha fatto i conti con me», vanta il Guardasigilli Clemente Mastella spiegando: «Qualcuno pensava che saremmo saltati, ma un po’ di esperienza mi è servita per evitare che questo accadesse». Ora la legge passa alla Camera, che deve approvarla definitivamente entro la fine del mese, pena l’entrata in vigore della riforma della giustizia varata dalla Cdl. La quale, per voce di Gianfranco Fini, stigmatizza il voto «costituzionalmente legittimo ma politicamente immorale» dei quattro senatori a vita presenti ieri, e dichiara che se il governo non si dimette compie un «insulto alla democrazia».
Teatrini della politica? Anche ieri se ne sono affastellati diversi. C’è ad esempio il giallo di Nuccio Cusumano, braccio destro e piede sinistro di Mastella, che era in aula e ha votato contro pur se i tabulati lo danno assente. Una correzione del verbale farebbe venir meno il peso determinante dei senatori a vita, portando il rapporto di voto tra i senatori eletti a 155 contro 155, dunque in parità, registrata dal regolamento a scapito dell’emendamento, che finirebbe ugualmente bocciato. Allo stato presente delle cose risulta comunque legittimo che Renato Schifani denunci «non c’è più una maggioranza politica» e rivendichi che «deve intervenire il presidente della Repubblica», Altero Matteoli irrida «festeggiate la vittoria come vi pare», Francesco D’Onofrio denunci che «si è consumata una gravissima rottura istituzionale» e Roberto Castelli tuoni in aula contro il Nobel Rita Levi Montalcini: «È sicura che in questo modo continua a illustrare la patria? Perché si umilia così?». Grande tempesta dunque. Però a mezzogiorno l’agenzia viaggi del Senato aveva fatto l’overbooking per le partenze serali, come se tutti i «padri» sapessero già che il giogo di oggi andava in salvifica cavalleria.
Cusumano o no, la realtà è che l’Unione calcola come fisiologico e naturale l’arruolamento dei senatori a vita. Sino al giorno prima, infatti, in aula c’era soltanto Giulio Andreotti. Ieri mattina s’è messa in moto la macchina unionista, per portar sui banchi appunto la Levi Montalcini, Emilio Colombo e il pio Oscar, onde aver la certezza matematica del non prevalebunt sull’emendamento dirompente che voleva introdurre gli avvocati nei consigli giudiziari. I patti segreti - nemmeno tanto - concordati tra la pattuglia dei «margheriti» anti-Veltroni, con Mastella e col governo, prevedevano infatti che Roberto Manzione avrebbe votato il suo emendamento salvando così la faccia e l’onore, Willer Bordon si sarebbe astenuto (sostanzialmente dunque votando con la maggioranza) e Roberto Barbieri avrebbe votato contro. E tutto ciò nonostante le dichiarazioni pubbliche reiterate sino a cinque minuti prima del voto che «il mio emendamento è giusto e non dirompente, dunque non lo ritiro» (Manzione), «di certo non voterò no» (Bordon), i «non accettiamo i diktat di Fassino» e le minacce dipietriste.
Teatrino, perché alle 11 era già tutto chiuso e ognuno aveva avuto il suo, era pronto pure il paracadute dei laticlavi eterni. «Ti ha già telefonato Prodi?», ha domandato un amico a Manzione. «Sì, sì», ha risposto lui allegro e soddisfatto, «anzi mi ha telefonato pure Chiti». I «veri ulivisti» hanno ottenuto dal premier il riconoscimento politico del loro ruolo, faranno gruppo parlamentare autonomo, forse otterranno pure i senatori per la Rosa nel Pugno con la quale stringere alleanza contro il Partito democratico di Veltroni e Francesco Rutelli.
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