Esercizi da acrobata. Per provare a riportare alla normalità un caso che invece denuncia le storture del sistema giudiziario italiano: «Parlare di errore - spiega a proposito di Amanda Knox il vicepresidente del Csm Michele Vietti - di fronte a una sentenza di secondo grado che modifica il verdetto significa ignorare il funzionamento del nostro sistema». Dunque, la condanna può diventate assoluzione.
Ma questo, ovviamente, non vuol dire che tutto sia andato per il verso giusto a Perugia. Non si potrà parlare di errore, con la E maiuscola, ma la catena degli errori, al plurale, è lunga e scoraggiante. Passi falsi che si ripetono da una vicenda all’altra, da Garlasco a Brembate, lasciando una scia desolante di pagine di cronaca nera senza soluzione. Si arriva talvolta ad un passo dall’assassino, ma poi le prove non reggono. E l’imputato torna libero anche se i sospetti non si sono diradati.
A Perugia il primo cortocircuito si verifica nel momento in cui Amanda viene ascoltata. La polizia è convinta di aver fatto centro. Amanda racconta, spiega che lei era nella stanza, accusa lo sventurato Patrick Lumumba. Il caso potrebbe chiudersi e in fretta, ma il verbale di quella drammatica deposizione è monco. Le domande finiscono quasi subito, quel che è accaduto non viene approfondito e nemmeno, dopo le prime clamorose ammissioni, si decide un break. Errore. Gravissimo. Perché a quel punto si dovrebbe continuare con un avvocato. Invece si va avanti come se nulla fosse. Risultato: quella confessione è nulla. Ed è anche un’occasione persa perché nessuno, nemmeno il pm che pure da un certo momento in poi è presente, ha provato a sfruttare la situazione per far crollare la ragazza.
È questo il peccato originale che si porterà dietro tutti gli altri. Ma i colpi di scena si susseguono in un’indagine che pure, sia detto senza ironia, non è fra le peggiori della nostra cronaca recente. Com’è come non è, il gancetto del reggiseno di Meredith - su cui viene trovato il Dna di Raffaele Sollecito - salta fuori solo dopo 46 giorni. Come mai non è stato trovato prima? In primo grado, la corte d’assise considera una prova fondamentale quel gancetto, ma in appello i periti faranno notare che 46 giorni sono troppi. Troppi per sorreggere certezze scientifiche e per far condannare una persona.
Certo, in un’indagine complessa lo scivolone ci può sempre stare, ma quei 46 giorni pesano. Come pesa, in un perverso effetto domino, anche la scelta dei periti da parte della corte d’assise d’appello. Uno dei due aveva partecipato solo l’anno scorso allo studio del materiale rinvenuto vent’anni prima sulla scena del delitto di Alberica Filo della Torre. Un team di esperti, su input della procura di Roma, aveva provato a riprendere in mano quegli oggetti nel tentativo di dare un nome al killer dell’Olgiata. Impresa fallita e così quei resti avevano preso la strada del Ris che invece nei mesi scorsi ha scoperto a sorpresa su un lenzuolo il Dna di Manuel Winston. E ha scritto la parola fine a un noir andato avanti troppo a lungo. Ma se l’esperto si era lasciato sfuggire la soluzione all’Olgiata, perché affidargli dopo breve tempo un caso così delicato?
Elemento dopo elemento, alla fine tutto l’edificio è crollato. E ha perso credibilità anche la testimonianza di Antonio Curatolo, il barbone che sosteneva di aver visto Raffaele e Amanda vicino alla casa di Meredith la sera del delitto. Curatolo aveva dichiarato di aver notato i due ragazzi mentre aspettava l’autobus. Ma quella sera gli autobus non circolavano. Così un dettaglio ovvio si è trasformato nella buccia di banana su cui è inciampata l’indagine.
Purtroppo la conclusione, avvilente, è tutta nelle parole del presidente della corte d’assise d’appello Claudio Pratillo Hellmann: «La verità resterà insoluta».
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