Governano con le sentenze, ma nessuno li elegge

Quanti medici ci devono essere in Lombardia? Chi ha diritto alle case popolari? A che ora devono chiudere i locali pubblici? É giusto espellere le prostitute, licenziare Sgarbi, restaurare la Scala, punire gli assenteisti, assegnare l’appalto per la ruota panoramica del Parco Sempione? Domande di ogni genere, questioni grandi e spicciole che riguardano la vita quotidiana dei milanesi. E alle quali sempre più spesso la risposta finale non viene dai palazzi della politica ma da un altro palazzo. Un vecchio stabile di via Corridoni, una ex scuola ristrutturata. É la sede del Tar della Lombardia.
Tribunale amministrativo regionale. Una volta, con rispetto parlando, un posto terribilmente noioso. E che ora assume invece un ruolo sempre più cruciale nelle scelte cittadine. Di fatto, non c’è ormai decisione politica locale che possa schivare il vaglio del Tar. Il risultato è che ormai a comandare a Milano ci sono il sindaco, il presidente della Provincia, il governatore del Pirellone. E poi loro: i giudici del Tar. Una ventina di magistrati amministrativi, nominati per concorso. Ma che si ritrovano, volenti o nolenti, a gestire un potere pari o maggiore di quello di organi elettivi.
Sui motivi che hanno portato alla progressiva espansione degli orizzonti del Tar, e sulle modalità con le quali esercitano il loro potere, si potrebbe discutere a lungo. Ma è un dato di fatto che l’«interventismo» del Tar ha modificato gli equilibri stessi della politica milanese. Una volta i giudici amministrativi si limitavano a cassare o ratificare questa o quella decisione del Comune o della Regione. Adesso spesso e volentieri sono loro a indicare linee di comportamento ed enunciare principi.
Certo, la maggior parte del lavoro continua a riguardare vicende spicciole, a volte individuali. Come la impressionante quantità di ricorsi che immigrati extracomunitari presentano contro decreti di espulsione emessi dalla prefettura o dalla Questura, e che a volte trovano soddisfazione: l'ultimo miracolato, in ordine di tempo, si chiama Ahmed Machti, un signore cui in giugno il questore di Milano aveva rifiutato il rinnovo del permesso di soggiorno perché non aveva un reddito sufficiente a stare in Italia, e che giusto venerdì scorso si è visto dare ragione dal Tar, in quanto a garantire il suo sostentamento è sufficiente il reddito della moglie. O come le centinaia di ricorsi che da tutta la Lombardia arrivano per ottenere permessi edilizi e licenze commerciali rifiutate dalle amministrazioni locali.


Ma insieme alla routine, cresce anche il peso specifico delle decisioni ad alto contenuto di politica: da quelle sulle liste elettorali - che la primavera scorsa fecero sbarcare in via Corridoni persino le tv satellitari - ai piani antismog, ala chiusura delle scuole civiche, persino al diritto alla vita di Eluana, per tutto o quasi tutto c’è chi chiede che siano i giudici del Tar a giudicare la politica. E loro, in genere, non si tirano indietro.

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