La Grande Depressione? Prodotta dallo statalismo

Secondo lo storico liberale furono proprio gli interventi adottati per frenare la crisi ad acuirla...

La Grande Depressione, la terribile crisi economica che colpì l’America a partire dal 1929 e si protrasse per tutti gli anni Trenta (con tassi di disoccupazione altissimi e brutali ripercussioni sociali), rappresenta un momento cruciale della storia novecentesca, dato che gli effetti di quell’avvenimento si fecero sentire pesantemente ovunque e specialmente in Europa.
La storiografia ufficiale ci racconta una vicenda assai semplice: le difficoltà iniziate nel settembre del 1929, quando gli operatori borsistici tornati dalle ferie si misero a cedere titoli e fare realizzi, sarebbero da imputare al capitalismo. Vi sarebbe stato il disordine dell’economia di mercato all’origine di quella sovrapproduzione, e ciò giustificherebbe l’interventismo delle politiche stataliste ispirate poi da John Maynard Keynes. Per molto tempo e ancora oggi, la crisi americana di fine anni Venti viene dunque letta come la prova definitiva che il sistema economico del laissez-faire non garantirebbe crescita, stabilità e sviluppo; e che avrebbe costantemente bisogno di piani, programmazioni, interventi, correttivi.
Finalmente anche i lettori di lingua italiana possono trovare una convincente e analitica confutazione di tale tesi nel volume scritto nel 1963 da Murray N. Rothbard, La Grande Depressione (Rubbettino, pagg. 540, euro 29): un testo ottimamente curato da Lorenzo Infantino e che può essere di fondamentale aiuto per chi voglia comprendere cosa è successo davvero nell’America che aveva appena scelto il presidente Herbert Hoover, quali fenomeni hanno causato il crollo della maggiore economia mondiale e, al tempo stesso, quali decisioni hanno cronicizzato difficoltà che diversamente si sarebbero potute superare con più facilità.
Rothbard è noto quale teorico principe del libertarismo e, in particolare, della sua versione maggiormente radicale. Ma egli è stato non solo un filosofo politico e del diritto. Soprattutto e in primo luogo egli è stato un economista di scuola «austriaca», allievo di Ludwig von Mises e originale prosecutore di quella lezione. Ed egli è stato pure - come attesta il lavoro ora tradotto - uno storico di razza (come riconosce Paul Johnson nella prefazione al volume che egli scrisse nel 1999), il quale ha messo a frutto la lezione di Joseph Dorfman - suo docente alla New York University - e ha coniugato una solida formazione teorica e un’attenta cura per la ricostruzione degli avvenimenti.
Da vari punti di vista La Grande Depressione è uno sviluppo delle tesi misesiane. Tutta la prima parte del libro (quasi duecento pagine) offre una rilettura della teoria austriaca del ciclo economico, volta a sottolineare come ogni economia viva naturalmente di fluttuazioni: alti e bassi legati alle opzioni mutevoli dei consumatori, alle innovazioni tecnologiche, agli accidenti della storia. Ma se una certa mutevolezza e precarietà degli affari sono ineliminabili e perfino positive (poiché il cambiamento è il sale stesso della vita), altra cosa sono i cicli e - in particolare - le depressioni. Qui gli autori della scuola austriaca insistono sull’importanza della dimensione monetaria e sul ruolo giocato dalle espansioni artificiose decise per via politica.
Senza poter entrare nei dettagli di un’analisi che Rothbard dipana con grande finezza, si può comunque sintetizzare la lezione dello studioso americano nella tesi che - come già aveva rilevato von Mises - la crisi fu effetto soprattutto dell’assommarsi dei «cattivi investimenti» che furono indotti dall’espansione del credito bancario alle imprese.
In un’economia di mercato, in effetti, il denaro ha un prezzo (il tasso d’interesse) ed esso serve non solo a remunerare il capitale, ma anche a filtrare le buone iniziative da quelle non destinate a produrre profitti. Se ottenere finanziamenti ha un costo, la possibilità di destinare tempo e risorse in progetti inconsistenti si riduce; ma quando si permette un’ampia manipolazione della quantità di moneta l’effetto è quello d’incoraggiare iniziative e imprese senza solide prospettive.
Da qui l’espansione (artificiosa) e, di seguito, il crollo: non privo di un suo valore salutare. Per gli analisti di scuola liberale, in effetti, questo genere di depressione non è altro che il venire a galla degli errori precedentemente commessi. C’è quindi qualcosa di sano in tutto ciò, a condizione che - dopo aver erroneamente pompato denaro ovunque e senza costrutto - non si pretenda di continuare su questa strada. Ma è questo che è avvenuto a causa dell’avversione di Hoover e dei suoi consiglieri per la politica economica del laissez-faire.
La depressione è stata quindi il frutto di interferenze pubbliche nella vita produttiva e soprattutto nell’economia monetaria, e si è protratta per più di un decennio a causa (come rileva Lorenzo Infantino) «di misure interventistiche che, adottate nel presupposto di evitare la crisi, l’hanno invece resa inevitabile e più profonda: nazionalizzazioni della produzione, piani pluriennali di opere pubbliche, tariffe doganali, tassi salariali rigidi o crescenti in termini reali, agevolazioni e protezioni agricole, contingentamenti, barriere all’immigrazione».
Analisi in linea con tutto ciò si trovano anche in altri classici liberali sul tema: basti pensare a The Roosevelt Myth di John T. Flynn, del 1948. Ma la lettura dell’opera rothbardiana è illuminante da vari punti di vista, dato che essa non solo denuncia le conseguenze devastanti dell’assistenzialismo, ma evidenzia pure la necessità che la moneta non sia un bene sottratto al mercato e alla libera competizione, data la funzione essenziale che essa svolge all’interno della vita economica. D’altra parte, per Rothbard e per von Mises la moneta dovrebbe tornare ad essere l’oro, come al tempo del gold standard.


Più in generale l’autore evidenzia come anche minime, o apparentemente tali, manipolazioni del libero mercato siano in grado di produrre conseguenze devastanti, dagli effetti imprevedibili. È una lezione da tenere sempre presente, se non si vogliono ripetere gli errori del passato.

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