«Fatta lItalia, shanno da fare ora gli italiani»: così Massimo Taparelli, meglio noto come marchese dAzeglio, cugino di Cesare Balbo, genero di Alessandro Manzoni e, quel che più conta, primo ministro del Regno di Sardegna tra il 1849 e il 1852. Ma anche «empio rivale» di Cavour (lespressione è proprio di questultimo) e convinto della necessità di unificare la penisola e, ciò ottenuto nel 1860, riformare pure le teste degli italiani. Questi italiani che non si volevano lasciar aggiustare, come lo stesso dAzeglio avrebbe specificato più tardi nei suoi Ricordi: «GlItaliani hanno voluto fare unItalia nuova, e loro rimanere glItaliani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico la loro rovina; pensano a riformare lItalia, e nessuno saccorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro».
Insomma anchegli avvertita lo squilibrio tra un avanzare a suon di alleanze e cannonate della unificazione politica dello Stivale e il «rimanere indietro» di chi lo abitava, lo Stivale. Ora, che un popolo debba sempre «riformarsi» può anche essere giusto, a patto di intendersi bene sul significato di quel verbo; ma nelle parole del marchese vi era un sovrappiù di sprezzo, di superiore illuminazione scaricata addosso al volgo arretrato e misero.
Chissà infatti cosa pensava il DAzeglio a vedere i tre quarti e più dellItalia ancora «impastoiata» nei tempi e nei ritmi lenti e antichi dellagricoltura. Perché la Penisola che viveva gli ultimi decenni del XIX secolo era soprattutto unItalia di contadini, spinti a diventare operai più mal gré che bon gré, lanciati nella grande e spesso abborracciata impresa dellalfabetizzazione delle masse, che colmasse un disavanzo scolastico notevole con il resto dEuropa, e che infine potesse cominciare a godere di quel soffio nuovo dellavvenire che alcuni respiravano, di cui si inebriavano, e che volevano far respirare pure agli altri.
Era il contrasto tra lingiallito bianco e nero delle foto depoca che ritraggono i bambini della campagna romana intenti a seguire la lezione del maestro su una cattedra ambulante, con lavagna e pallottoliere appoggiati tra lerba, di contro al colore dei primi manifesti della Belle Époque, quella «epoca bella» che si sarebbe inaugurata alla fine del secolo e sarebbe approdata alla tragedia della Prima guerra mondiale.
È il percorso storico e visivo - tra fotografie e riproduzioni, quadri e illustrazioni - che propone il terzo volume della Storia d'Italia del XX secolo, dedicato appunto a Società e costume nell'Italia unita, pubblicata dal Giornale insieme allIstituto Poligrafico e Zecca dello Stato.
Scorrono qui senza pudori le contraddizioni di una società forzata a cambiare con un ritmo accelerato, spesso al lume dellacetilene perché lelettricità ancora non era arrivata, dentro vagoni ferroviari riattati ad essere anguste aule di scuola, mentre uneleganza di penna e di stoffe si ricamava sui colletti dei signori e le maniche, le perle, le piume delle signore. Mentre si tentava, si osava mettere in cinema la Divina Commedia (e dicono fu un successo) nel 1910. Mentre gli ingranaggi delle prime macchine - dalle fabbriche alle strade - scandivano nuovi ritmi e nuovi rumori, avvisaglie di nuovi incubi.
Era infatti unepoca di miraggio, luccicante, frizzante, impressionista, cabarettista, cancanettista, soprattutto imbevuta duna fiducia sconfinata e smisurata nel progresso, incurante dello sforzo titanico che gli uomini e le donne avrebbero dovuto mettere in campo per star dietro a quella mitologia moderna, quellindicare un modello che avrebbe poi giocoforza creato masse di diseredati, pronti a essere riclassificati in proletari e sottoproletari. A dare così il via ad altre lotte, sino a quando la Grande Guerra avrebbe detto - ma forse senza farsi capire sino in fondo - che tutto ciò aveva un prezzo. Altissimo.
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