Gaia Cesare
Il primo dei colossi a capitolare è stato Yahoo!. Poi, dopo inutili resistenze è stata la volta del motore di ricerca Google, il più potente e preciso strumento a disposizione degli internauti di tutto il mondo. Ma ora anche Skype, uno dei fornitori di servizi telefonici via Internet più all'avanguardia del momento, ha dovuto cedere alla censura del Grande fratello cinese.
Se per milioni di persone nel mondo parlarsi da un capo all'altro dell'oceano è alla portata di un clic e al costo di una normale connessione telefonica, per i cinesi il costo da pagare non sarà tanto in termini di yuan, la moneta cinese, quanto al prezzo della loro libertà. Sì perché mentre Pechino continua ad aprirsi al mercato globale e avanza come un gigante nel sistema capitalistico internazionale, il regime colpisce implacabile ogni forma di espressione che fuoriesce dai paletti imposti dagli eredi di Mao Zedong.
La Cina spalanca insomma le porte agli internauti che vogliano lanciarsi in conversazioni internazionali a bassissimo costo. Ma a una condizione: che semmai quelle parole tanto sgradite al Partito vengano pronunciate durante un colloquio via Internet, uno strumento diabolico studiato ad hoc per l'occasione possa censurarle. Che si tratti di un bip che l'Occidente riserva solo alle parole sconce pronunciate in tv durante le fasce protette, che sia un suono che distorce un termine coprendone il reale significato o che si tratti di un silenzio che ha il peso di mille parole, la sostanza non cambia: il regime colpisce ancora, implacabile, il paradiso virtuale e reale della libertà d'espressione che è il web.
A svelare i retroscena dell'ennesimo colpo di mano firmato dalle autorità di Pechino è la rivista statunitense Businessweek. Nella versione on line si racconta infatti che Li-Ka-shing, il miliardario di Hong Kong che ha in mano la Tom on line, abbia lasciato poche possibilità ai suoi partner della Skype: niente filtro, niente servizio. Per accedere al mercato cinese non bisognava scontentare le autorità. Chiarito che la Skype si trovava spalle al muro, nonostante le resistenze mostrate in un primo momento, la compagnia globale di telefonia, in nome del business, ha dovuto cedere, allungando così la lista dei colossi scesi a patti con Pechino. Per i cittadini cinesi che volessero parlare di Falun Gong (il tanto detestato movimento perseguitato brutalmente dal regime) e per coloro che intendessero solo accennare al Dalai Lama (la massima autorità temporale e spirituale del Tibet), insomma, non ci sarà scampo. Così come non ce nè stato finora per coloro che nella propria corrispondenza sul web accennavano alla «indipendenza di Taiwan» o alla democrazia. A lavorare per imporre la retta via saranno i circa 30mila operatori impegnati quotidianamente nel garantire che siti Internet, blog, e-mail e chat room non siano impestati dagli «untori». Una marea umana non da poco se si considera che l'intera Cia al servizio dell'amministrazione americana impiega circa 16mila persone. La guerra contro la modernità, insomma, non si ferma e, mattone dopo mattone, Pechino costruisce la Grande muraglia contro la libertà di pensiero che viaggia sulla rete, senza per questo sottrarsi al ghiotto business che la globalizzazione rappresenta ormai per quel Paese.
Se da una parte il lavoro di censura rischia di essere insostenibile (ma gli esperti assicurano che la capacità di controllo della Repubblica popolare non è da sottovalutare), quel che salta agli occhi degli internauti occidentali è la resa finale cui si sono piegati i colossi dell'universo on line. L'ultimo esempio è stata la nuova concessione che Microsoft ha offerto a dicembre alle autorità cinesi, chiudendo il sito di un blogger su richiesta del governo. Ai vertici del regime basta insomma una telefonata per fermare le idee e le parole che galoppano sulla Rete. «Rimuoviamo i contenuti che ci vengono segnalati solo se la richiesta arriva dall'autorità competente», è stata la flemmatica risposta del responsabile del prodotto per la Msn, Brooke Richardson.
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