Da quando il governo di Rabat ha accettato il rimpatrio dei clandestini in cambio di una quota di 50.000 immigrati legali l’anno, il flusso che una volta attraversava l’Algeria e via Tunisia o Libia si riversava a Lampedusa e in Sicilia sulle carrette del mare è molto diminuito, ma la voglia dei marocchini di trasferirsi nel nostro Paese è, se mai, aumentata. Essi vi costituiscono già la comunità straniera più numerosa e - grazie anche ai ricongiungimenti familiari - hanno buone possibilità di mantenere questo primato. Non per nulla, tra i voli intercontinentali da e per la Malpensa che l’Alitalia si propone di chiudere, non figura il collegamento quotidiano con Casablanca.
In maggioranza, si tratta di una immigrazione non qualificata, perché ancora oggi quasi la metà dei marocchini sono analfabeti, e che comporta anche qualche rischio. Molti infatti provengono dalle montagne del Riff, dove si produce da sempre una grande quantità di marijuana, e sono perciò candidati naturali per il grande business dello spaccio, contribuendo in misura non indifferente all’aumento della nostra popolazione carceraria.
Tra gli immigrati più scolarizzati, invece, c’è certamente un certo numero di fondamentalisti, come dimostra una presenza marocchina in quasi tutte le cellule vicine ad Al Qaida smantellate dai nostri servizi. Ma, stante la situazione economica e sociale del Paese, l’ondata non è arrestabile.
Nonostante i progressi degli ultimi anni e consistenti aiuti americani e francesi il Marocco, privo com’è di risorse minerarie e con un’agricoltura non proprio fiorente, resta nello stesso tempo il Paese più povero del Maghreb (1.200 Euro di reddito pro capite), quello con la più alta percentuale di abitanti sotto i 15 anni (31,1) e quello con il peggiore sistema sanitario (un medico ogni 2.000 abitanti).
Per il momento, creare un numero di posti di lavoro sufficiente a compensare l’aumento della popolazione è impossibile, e senza lo sfogo dell’immigrazione, e delle relative consistenti rimesse che aiutano centinaia di migliaia di famiglie a tirare avanti, il Marocco non tarderebbe a scoppiare.
L’Occidente ha tutto l’interesse a che questo non avvenga e dovrebbe adoperarsi di più per aiutarlo: nel non esaltante panorama dei Paesi arabi, il Marocco appare infatti il più affidabile, il più portato a costruire una forma accettabile di democrazia e il più lontano dai fanatismi mediorientali (basti pensare che c’è ancora una sia pur piccola, ma ben integrata comunità ebraica, legittimata a mantenere regolari rapporti con Israele).
Un “codice di famiglia” approvato nella scorsa legislatura ha molto migliorato la condizione femminile, che oggi è una delle più avanzate del mondo islamico. Per quanto formata in buona parte da notabili, eletti più per la loro posizione sociale che per le loro idee, il Paese dispone di una classe politica abbastanza preparata e nello stesso tempo disponibile ad accettare - almeno per il momento - il ruolo subordinato a quello della monarchia previsto dalla Costituzione.
Certo, i 26 partiti oggi rappresentati in Parlamento - alcuni con un solo seggio - sono troppi e c’è da augurarsi che gli sforzi di razionalizzazione del sistema, attraverso la fusione dei gruppi con basi ideologiche comuni, abbia successo, favorendo la transizione dall’attuale “ammucchiata”, che vede insieme al governo nazionalisti, conservatori, comunisti e socialisti, a un sistema bipolare all’europea. Perché questo avvenga, re Mohammed dovrà, sia pure lentamente, dare più poteri ai ministri, mollare in parte la presa sulle grandi aziende di Stato, dare al sempre più numeroso ceto medio, che è stato il vero responsabile dell’elevato tasso di astensionismo nelle legislative di settembre, la sensazione che a ogni elezione il suo voto conta un po’ di più. È un sovrano giovane (35 anni), moderno, senz’altro bene intenzionato anche se un po’ imperscrutabile. Il grande interrogativo è se, sulla strada delle riforme, saprà trovare i tempi giusti.
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