La grandezza di quei «giusti» senza volto

I piccoli atti di eroismo quotidiano che salvarono migliaia di ebrei dalla deportazione

Liliana Segre
Nella mente di ogni sopravvissuto i ricordi non danno tregua. Basta un colore, un odore, un filo di fumo, un cane lupo, e sei di nuovo là, in quell’universo del male. Intanto i rumori della città, le voci, le macchine, le luci. Cammini, corri, guidi l’auto nel traffico, ti chiedono informazioni, ti parlano di persone e di cose. Ti sdoppi nel prima e nel dopo. Nessuno può capire. Stiamo scomparendo uno dopo l’altro, nessuno ricorderà direttamente ma solo per sentito dire. Si faranno altre illazioni, altre revisioni. Altre negazioni. La maggior parte degli «ingiusti» sono invecchiati nelle loro case, alcuni di loro circondati da onori e affetti. Sono morti nei loro letti senza aver espiato le loro colpe immani. Quanti uomini e quante donne hanno picchiato, torturato e ucciso senza un rimorso, senza un fremito, senza un dubbio, ebbri di potere e di crudeltà? Come perdonarli? Come dimenticarli? Come dimenticare gli occhi gelidi, i sorrisi diabolici e i deliri di onnipotenza? \
Quanti anni ci vogliono per tentare di rendersi conto della loro abissale povertà di spirito, del profondo baratro di bruttura e di mostruosità che dopo averli partoriti li aveva inghiottiti? Non basta una vita. Sono gli «ingiusti». Ma non deve bastare una vita neanche per ricordare i «giusti», delle cui piccole-grandi storie si conosce poco. L’elenco dei 295 nomi dei giusti italiani a Yad Vashem non li comprende certo tutti. Sono coloro che, a rischio della vita, hanno salvato persone che erano in pericolo, inseguite, braccate, nascoste con il terrore di essere scoperte. I giusti hanno condiviso con loro alloggi e cibo, hanno portato speranza e conforto. Hanno mostrato come, con piccoli gesti, si possa trasformare la propria vita in un capolavoro, senza calcolo né ambizione alcuna.
Io non ho conosciuto dei giusti che hanno salvato vite, ma degli eroi quotidiani che desideravano aiutare, confortare, essere vicini con tutti loro stessi, con le loro famiglie, con le loro case aperte. Ricordo volti, luoghi, segni di affetto ricevuti quando ero una ragazzina di tredici anni che si nascondeva, prima di essere rinchiusa nel carcere milanese di San Vittore e deportata ad Auschwitz il 30 gennaio del 1944. Ricordo il signor Pozzi che è venuto a prendermi in motocicletta per nascondermi nella sua casa in Valsassina. Era un uomo semplice, un conoscente di mio padre, con una casa modesta dove dormivamo in tanti nella stessa stanza. Io allora non ho capito niente. La sua famiglia mi faceva sentire un’ospite di riguardo quando invece in quel momento ero l’ultima del mondo. Andavo con loro, in quel paese buio, di notte, a prendere il latte, e per tutto il tempo dicevo a me stessa: «Voglio tornare a casa mia, cosa ci faccio qui?». Era metà settembre del ’43 e già faceva freddo, in quel luogo di montagna. Non ho mai ringraziato abbastanza la famiglia Pozzi. Dopo la guerra li ho persi di vista, e solo da donna adulta ho compreso quanto grande fosse stato il loro gesto.
Ma ormai era tardi per ritrovarli. Sono stata un mese con loro. Poi una notte arrivarono i tedeschi e portarono fuori gli uomini per controllare i documenti. Mio padre era là, era venuto a trovarmi. Lo scambiarono per un medico perché nel documento, accanto al suo nome, c’era il titolo di «dottore», e perché aveva con sé la tessera della Protezione animali. Ma era stato un tale spavento che decise di portarmi via da quel luogo che non era più sicuro. E ricordo un altro giusto, Luigi Strada, che lavorava con mio padre: mi accompagnò a Castellanza rischiando moltissimo. Sulla tramvia che partiva da corso Sempione i tedeschi e i fascisti salivano continuamente, controllavano i documenti, eri sempre in pericolo. Luigi Strada mi portò dalla famiglia di Paolo Civelli, amico fraterno di mio padre. Come dimenticare lui, sua moglie, l’affetto con cui mi hanno confortata, come ci hanno aiutati a organizzare la nostra fuga in Svizzera, conclusa poi con l’espulsione e l’arresto (ma allora non potevamo saperlo, allora sembrava l’unica, disperata via d’uscita da quell’ingiusta clandestinità diventata insopportabile)?
Ricordo il signor Corradini, anche lui ospite dai Civelli, un semplice conoscente di mio padre, che vedendolo così disperato l’ha talmente incoraggiato a fuggire che alla fine gli ha detto: «Ti accompagno io». Lo abbiamo visto arrivare all’alba alla casupola dei contrabbandieri sul confine. Voleva salutarci. Voleva vederci passare in Svizzera per tornare indietro e dire ai nostri amici: «Ce l’hanno fatta, sono passati». Rischiava la vita.
Ma la figura per me più commovente, fra gli amici con la «A» maiuscola, è Susanna.
Susanna era una donna che aveva studiato solo fino alla seconda elementare. Mia nonna Olga, quando si era sposata, l’aveva portata con sé come cameriera. Susanna ha vissuto in casa nostra per 47 anni, un’intera esistenza. Nutriva venerazione e gratitudine per tutta la nostra famiglia. Lei, quando ancora non usava, ha chiesto di andare in pensione anticipata perché agli ebrei non era permesso tenere donne di servizio. In un primo tempo è andata a stare da una cugina, e non si dava pace al pensiero che nella mia famiglia non c’era una donna giovane che badasse alla casa: mia madre era morta quando io ero molto piccola, e mia nonna Olga, la sua signora Olga amatissima, aveva dei disturbi di salute, piangeva facilmente, si spaventava per un nonnulla. E il nonno cominciava già ad avere sintomi violenti del morbo di Parkinson. Era Susanna il baluardo della casa e della famiglia. Poco dopo è tornata da noi, come ospite, e nella sua grande bontà ha rischiato ed è rimasta con i miei nonni fino all’ultimo. Accudiva il nonno malato, confortava questi due vecchi disgraziati, perduti, che passavano dal benessere di famiglia tranquilla all’arresto per la colpa di essere nati. Li ha accompagnati al convoglio che nel maggio del ’44 li ha trascinati ad Auschwitz, ed è stato un caso che non abbiano portato via anche lei.
Susanna è rimasta sola nella nostra casa, si è presa cura dei nostri oggetti, quei pochi che si erano salvati. Negli ultimi tempi era stata lei ad aiutare i miei nonni rimasti senza mezzi. È stata fantastica. Nel 1958 si è ritirata definitivamente al suo paese, Mondovì. Andavo spesso a trovarla, per me era una figura importantissima. Le portavo piccoli regali: una liseuse, delle pantofole, un barattolo di marmellata. E tornavo con l’orologio d’oro di mia nonna, con gli argenti che le avevano donato negli anni, con i bellissimi pizzi che lei creava all’uncinetto. Volevano che fossero per me. Quanto erano ridicoli i miei regali a lei. L’unico vezzo della sua vita fu quello di pagarsi un funerale strepitoso. Ricordo le parole del prete durante l’omelia funebre: «Questa donna ha passato tutta la vita in una famiglia ebraica, e sempre ha fatto dire per loro delle messe, ogni giorno ha ricordato i suoi martiri come fossero membri della sua famiglia». Susanna non è riuscita a salvare i miei nonni amatissimi dalla deportazione ad Auschwitz, ma per me appartiene alla schiera dei giusti.

È stata vicina a loro con una purezza assoluta, la purezza di un bambino che ti corre incontro per abbracciarti. Senza secondi fini. Senza debiti da saldare. Senza calcolo alcuno. Susanna ha dato.
Riconoscenza e onore ai giusti.

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