Grandi cuoche per amore e passione

Paolo Marchi

Quando il 20 marzo la Michelin scelse l’Academia Barilla per festeggiare i suoi primi cinquant’anni in Italia, a Parma sfilarono tante donne chef. Su 226 insegne con almeno una stella, 58 hanno una cuoca a dirigere i lavori golosi con il caso dell’Enoteca Pinchiorri di Firenze dove Annie Feolde, francese di nasciata e italiana per amore, nel tempo è passata da cuoca a ristoratrice, con Italo Bassi e Riccardo Monco a fuochi e fornelli. Morale: non appare più nella «liste des restaurants etoiles dont le chef est une femme» stilata dal Bibendum.
In ogni modo, un viaggio nella cucina al femminile dovrebbe chiudersi con un libro. Punto di partenza la constatazione che, a parte due o tre esperienze francesi di oltre mezzo secolo fa, non c’è un’altra nazione con così tante cuoche dorate, a iniziare da chi ha tre stelle, con la Pinchiorri, Nadia Santini del Pescatore a Canneto nel Mantovano e Luisa Valazza del Sorriso di Soriso in Piemonte, piuttosto che due come Valeria Piccini del Caino a Montemerano in Maremma e Maria Salcuni alla Tenda Rossa a San Casciano vicino Firenze.
Il punto è che quasi tutte vivono all’ombra di un marito che fa il gallo in sala e cantina, magari dopo essersi fatto largo in scia a una madre o a una suocera cucinanti. Fateci caso, ma quasi sempre, quando si parla di un locale con lo chef al maschile, lo si identifica con il cognome del cuoco sia che appaia sull’insegna (ed è ovvio), come con Cracco, Marchesi, Uliassi, Vissani..., sia nel caso contrario: Alajmo e le Calandre, Beck e la Pergola, Scabin e il Combal... Invece non esiste un marchio che sia il cognome di una lei. Ha commentato Antonio Santini, la cui moglie Nadia è ancora in cucina con Bruna, la suocera: «I ristoranti da noi si sono sviluppati attorno alla famiglia, che diventa così anche un’azienda. Poi è quasi naturale che i rapporti con i fornitori, che si papperebbero viva una figura al femminile, li tenga l’uomo che così finisce per essere il più visto».
Dopo ore di confidenze, aneddoti e sfoghi, forse la sintesi più felice mi è giunta da Ambra Lenini, titolare a Imola di un’osteria dove lavorano solo donne «perché la volta che ho preso un cuoco voleva fare la star e non ci serviva». Mi ha scritto questo: «Gli uomini la fanno facile. Sono abituati a prendersi il tempo necessario per la loro carriera, senza il timore di recriminazioni per la loro assenza, anzi con il massimo supporto familiare, ma se tu donna hai ambizioni ti tocca la doppia fatica: quella professionale e quella privata. La casa, la tutela degli affetti, la maternità, le rinunce, i dubbi, è comunque tutta roba tua. È una sfida faticosa e sempre salta fuori quanto coraggio ci voglia, a una donna, per affrontare un lavoro tanto impegnativo, nel quale raramente raccoglie meriti».
A parte che non c’è una stellata che non abbia un marito o i genitori (o entrambi) sotto lo stesso tetto, pochissime hanno iniziato con tutt’altri sogni in testa, Santini (galeotta fu la Cattolica a Milano) e Valazza (tutto iniziò con un toast) ad esempio oppure Marta Grassi del Tantris a Novara o Helene Stoquelet che arrivò a Siena da Parigi come insegnante e poi scoprì l’amore in un orafo e poche altre. Ricorda la Grassi: «Io insegnavo e mio marito aveva un’agenzia viaggi. Nell’89 frequentai a Milano un corso di cucina e lo chef Fabio Zago, che se rivedo strozzerei, per scherzo sia chiaro, mi disse che avevo talento fulminandomi con una domanda “mai pensato di aprire un locale?”. Avevo 34 anni: nel ’93 lo aprii per davvero». Per nulla precoce come a Manerbio sul Garda Giuliana Germiniasi che solo nel ’94 si mise in scia alla suocera, Maria Veggio, scomparsa da poco, dopo tanti anni in sala: «Iniziai dai dolci, poi iniziò lei a spiegarmi il salato. È stata una buona insegnante, certo che mi sentivo sempre sotto esame». Non è mai facile entrare nel regno altrui. Il confronto è continuo e chi invecchia difficilmente ammette di perdere colpi.
Da suocera a nuora anche a Carovigno nel Brindisino con Teresa Buongiorno: «Davo una mano in un locale di fortissima impronta territoriale. Avevo più fantasia di Antonia, la madre di mio marito, e abbiamo coabitato per 8 anni. Non è mai facile far coincidere la famiglia con il lavoro e in cucina lo è ancora di più perché a tasso estremo di stress». Stesso concetto di Adriana Biondi a Sant’Agostino nel Ferrarese: «Quando entri nella cucina di altri devi adattarti e sapere ascoltare prima di portare i tuoi piatti».
E poi vengono i figli da crescere e come uomo uno si sente a disagio a parlare con professioniste che sommano due lavori, quello di cuoca e quello di madre. Quando il confronto non è anche con i genitori. Ricorda Carla Aradelli da Piacenza: «Io ero la figlia che non era bella, non sapeva cucinare e andava male a scuola, in una famiglia dove il maschio era il Maschio. I miei facevano tavolate infinite e io ho sognato per anni di andare da mio padre con la Michelin in mano per fargli vedere che avevo preso la stella. Solo che quando successe, nell’autunno ’96, lui era morto da poco».


Il segreto del successo? Lo conosce Nadia Santini: «Innamorarsi del proprio mestiere e farlo bene, rendere prezioso ogni momento della giornata. Noi donne siamo più portate a vivere i nostri sentimenti, a mettere l’anima al centro delle nostre azioni e a dare. Siamo generose e non ci mettiamo in prima fila».

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