La Grecia si arrende, gli aiuti a un passo

La Grecia si arrende, gli aiuti a un passo

Evitare l’ennesimo rinvio. Mostrare unità d’intenti. Chiudere finalmente la partita. È con questi tre imperativi, scanditi come un mantra, che i ministri finanziari dell’Eurogruppo hanno dato ieri il via al vertice da cui deve uscire la concessione della seconda tranche di aiuti alla Grecia. L’ottimismo della vigilia sul buon esito del negoziato non è mai venuto meno durante la giornata (le Borse hanno chiuso in rialzo, con Milano a +1% e spread in calo a 351 punti), ma in tarda serata ancora mancava la firma a un’intesa che dovrebbe arrivare entro la notte, salvo rotture impreviste.
I punti ancora da definire, del resto, non erano di poco conto. Atene si è seduta al tavolo delle trattative (per l’Italia presente il presidente del Consiglio, Mario Monti) dopo aver fatto i compiti a casa, grazie all’individuazione dei tagli necessari a reperire i 325 milioni che ancora mancavano all’appello nel maxi-piano di austerity (una manovra da 3,3 miliardi), duramente contestato dalla popolazione e non approvato dal partito di destra che appoggiava il governo di coalizione. E consapevole di aver adempiuto alla richiesta dell’Europa di un impegno scritto da parte dei principali leader politici ad applicare le condizioni del salvataggio, anche dopo le elezioni di aprile. Ma il premier ellenico Lucas Papademos si è subito trovato di fronte un primo ostacolo, forse non calcolato: l’Olanda, spalleggiata per la verità senza molta convinzione da Germania e Finlandia, si è impuntata sulla necessità di rendere permanente la presenza della troika Ue-Bce-Fmi nella capitale greca. Una richiesta tesa a far perdere ulteriore sovranità a un Paese, di fatto, da tempo commissariato. E pretesa dopo che ieri Atene aveva già abbassato il capo, dicendo sì alla creazione di un conto bloccato con cui sarà gestita una parte degli aiuti destinata all’esclusivo rimborso dei titoli di Stato. Che è come dire: «Visto come vi siete comportati, non ci fidiamo di come gestirete i nostri soldi». Anche in questo caso, si tratta di un’ingerenza mai vista nella sovranità della gestione fiscale di una nazione del club di Eurolandia.
L’aspetto più delicato, quello che con buona probabilità ha impedito una rapida risoluzione del vertice, è però quello che attiene l’ammontare del bailout. Il presidente dell’Eurogruppo, Jean-Claude Juncker, è stato chiaro: l’aiuto promesso alla Grecia non potrà in alcun caso superare i 130 miliardi. Il problema è che Atene non riuscirà a centrare, come richiesto, l’obiettivo di riportare il rapporto debito-Pil al 120% (adesso è al 160%) entro il 2020. All’appello, tenuto conto anche dell’intesa raggiunta con i creditori privati sulla ristrutturazione del debito (perdita del 70% del capitale, interesse del 3,5% sui sirtaki-bond di nuova emissione) mancherebbe una cifra compresa tra i cinque e i dieci miliardi. Come reperirla? Il nodo non è semplice da sciogliere. Anche perché il Fondo monetario si è «sfilato» dall’accordo raggiunto lo scorso anno in base al quale l’organismo guidato da Christine Lagarde avrebbe dovuto versare un terzo del prestito. Lo sforzo finanziario del Fmi potrebbe invece limitarsi a soli 13 miliardi, a causa delle pressioni di Paesi come Usa, Brasile, Russia, India e Cina, che non vedono di buon occhio la forte esposizione nei confronti dell’Europa.


Le ipotesi in discussione per risolvere il problema sono tre: la prima è legata alla possibilità che i creditori privati accettino un haircut superiore a quanto pattuito, opzione che Papademos ha direttamente trattato a Bruxelles con le banche private; la seconda prevede una contribuzione del settore pubblico, ovvero delle banche centrali nazionali e/o della Bce; l’ultima, l’accettazione da parte dei Paesi dell’Eurozona di un taglio dei rendimenti sui prestiti.

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