Dallas«È la vittoria dei tifosi». Quante volte, mettendosi una mano sul cuore e una ad ostruire la coscienza, allenatori e giocatori hanno etichettato così un grande trionfo? Fuffa, di solito. Nel caso dei Green Bay Packers, vincitori domenica del loro quarto Super Bowl in un bellissimo 31-25 sui Pittsburgh Steelers al Cowboys Stadium di Arlington, vicino a Dallas, la frase rappresenta qualcosa di molto simile alla realtà. Perché i Packers, unici in tutto lo sport professionistico americano, non hanno un proprietario, ma 112.158: ovvero tutti i tifosi che hanno acquisito una quota societaria da 200 dollari che però vale, come investimento, zero. I Packers infatti non distribuiscono dividendi, insomma sono una struttura non profit: dirigenti, giocatori e allenatori vengono pagati con gli introiti della vendita dei biglietti e dei gadget, con la quota di diritti televisivi e degli sponsor nazionali e di tutto quanto riescono a racimolare sul piano locale, specialmente nei giorni delle partite.
Sono circa 2,8 milioni i tifosi e i curiosi che, attratti dalla tradizione locale del football (i Packers furono accettati nella lega nel 1921), visitano la città - dove peraltro da visitare non c'è nulla - e lo stadio, il Lambeau Field: tra il tour guidato e il ricchissimo negozio di souvenir il ricavo è alto, e crescerà ancora dopo l'impresa di domenica, arrivata grazie al quarterback Aaron Rodgers, votato miglior giocatore, e ad una difesa che ha strappato agli Steelers tre palloni, di cui uno portato direttamente in touchdown. Con la Nfl in uno dei momenti di massimo sviluppo ma alle prese con il grave pericolo di un blocco delle attività per i contrasti con l'associazione giocatori, è comunque bizzarro che a vincere il titolo sia stata una squadra priva della classica figura del proprietario unico, spesso egocentrico, protagonista e battagliero nelle trattative come quella in corso. Quel che nessuna riforma potrà toccare è però la struttura stessa della lega, che mette sullo stesso piano, nella ridistribuzione dei profitti e dunque nel potenziale competitivo, le squadre di metropoli come Dallas e quelle di centri di poco più di 100.000 abitanti, come Green Bay. I cui tifosi possono così sognare sempre di gareggiare alla pari con i Cowboys, aspetto sconosciuto alle vecchie, stanche eppure arroganti leghe calcistiche europee, dominate dalle solite note.
Per capire quanto sia importante che un club come i Packers possa mantenere il proprio valore, basta ricordare che la loro struttura societaria è in deroga alle stesse norme della Nfl, che prevedono per una squadra un massimo di 32 proprietari dei quali uno abbia almeno il 30%. Deve infatti essere una sola persona a prendere le decisioni e a rappresentare il club in lega, e nei Packers questa è il presidente, che viene eletto. Tutto ciò, dall'equità competitiva tra le 32 squadre allo scheletro egualitario del Packers, alcuni lo hanno chiamato socialismo, ma è in realtà un'interpretazione saggia del capitalismo competitivo che è alla base dello sviluppo di tutte le leghe professionistiche. Un capitalismo che ogni tanto mostra qualche crepa: alla faccia di tutta la grandeur texana, domenica oltre 400 spettatori delle tribune provvisorie non hanno potuto occupare i loro posti, ritenuti non idonei dai vigili del fuoco.
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