Cultura e Spettacoli

Gruppo di famiglia in un inferno

Fughe vigliacche, violenze, lutti, follie: il nucleo della società si sta azzerando

Un liceale il sabato sera beve un po’ troppo, sbanda col motorino e si rompe l’osso del collo su un palo della luce. Un imprudente? Ma no, aveva alle spalle una famiglia difficile. Aumenta il tasso di criminalità: reagiamo assumendo insegnanti e poliziotti? Nemmeno per idea, è colpa della fragilità delle relazioni domestiche. L’Italia nelle sfide internazionali batte la fiacca? Inutile interrogare gli economisti, sappiamo già qual è la causa, perciò mi raccomando, la famiglia!
Come il re nelle società tribali o in Shakespeare, come un monarca il cui indebolimento trascina il popolo nella rovina, la famiglia sembra reggere le sorti di tutti e per tale ragione è immancabilmente difesa a spada tratta. Prendete per esempio quei delitti fatti in casa come le tagliatelle: avrete notato che nei tg, quando un onesto lavoratore stimato da tutti va in discoteca, si fa saltare la mosca al naso e assassina il barman con una coltellata, il vero criminale è la discoteca, non il lavoratore. I giornalisti in questi casi adeguano ai tempi l’antico ammonimento di Pascal, suggerendo ai telespettatori che se l’omicida, invece di uscire, fosse rimasto accanto al caminetto a leggere il Reader’s Digest alla mamma, non sarebbe finito in galera. Viceversa quando una persona equilibrata e socialmente utile commette matricidio, nessun mezzobusto prova a osservare che la tragedia sarebbe stata evitata se l’uccisore, invece di rimanere a casa, fosse andato a ballare con gli amici. La famiglia, per definizione, non suborna né corrompe: corrompe solo il sottofamiglia (gli individui) o il soprafamiglia (la società).
Il centro del sandwich, in Italia, non è mai avvelenato. Il problema è che adesso, con la veemenza con cui parla la verità quando ritorna da uno dei suoi lunghi viaggi all’estero e vuole regolare un po’ di conti, ci piombano improvvisamente sulla scrivania, alla stregua di arretrati, cinque romanzi i quali, pur nella diversità di stile e di meriti, messi l’uno accanto all’altro cantano in coro la stessa ingiuriosa canzone, o almeno sbottano nel medesimo uffa.
Non fanno bella figura, per cominciare, il papà e la mamma del protagonista di Aiutami tu di Paolo Di Stefano (Feltrinelli). Il primo inizia a tornare a casa sempre più raramente decidendo infine di abbandonare il tetto coniugale. La seconda, autentica madre infernale impegnata in primo luogo a sparlare dell’ex compagno di fronte ai figli, fa seguire le crisi di pianto alle parolacce, e queste agli scatti di violenza. Con un tale clima, non c’è da stupirsi che il ragazzino cerchi interlocutori altrove: scriverà una lettera al giorno alla bella ventiseienne (il romanzo è composto appunto dalla serie di queste lettere) che distribuisce merendine e aranciate a scuola, durante la ricreazione. La donna, incapace di distinguere nei messaggi il vero dal falso, le prenderà tutte per fantasie: e quando giungerà la prevedibile tragedia sarà troppo tardi.
La fuga vigliacca del capofamiglia, la diserzione dai doveri paterni è al centro anche del romanzo di Enrico Mottinelli Lontano padre (edizioni e/o). Stavolta tuttavia la causa è meno evanescente: la morte in un incidente stradale di Andrea, il primogenito. L’interruzione del flusso affettivo dal padre al figlio minore è definitiva, e così traumatica da riprodursi identica nella generazione successiva. Le mura domestiche, ecco la probabile lezione di queste pagine, mancano della forza sufficiente a sostenere, da sole, gli urti della vita. Lungi dallo smorzare il dolore lo amplificano, o crollano sui suoi membri.
Fin troppo presente è invece il padre di Senza coda (Fanucci). L’autore, Marco Missiroli, disegna una figura grottesca in cui si affollano i tratti di una paternità pressoché stuprante: intuiamo quali sopraffazioni si celino dietro il titolo senza ricorrere a Freud (non è privo di significato che queue in francese designi sia la coda sia, in gergo, l’organo sessuale maschile). L’uomo, metà militare di carriera e metà fantoccio borghese in camicia bianca, panciotto e orologio da taschino, è il genitore-orco capace, durante un pranzo, di ficcare in bocca al figlio pezzetti sanguinolenti di polpa di granchio allo scopo di curarne la timidezza, fino a farlo vomitare. I lividi che compaiono sulla schiena della moglie testimoniano che è l’intera famiglia a doverne subire la violenza: anche in questo caso dietro l’angolo attende una tragedia.
Tutta giocata su un tono moralistico e dissacrante, miscela frequente tra i giovani scrittori, è invece la parabola del romanzo di Alessandro Colizzi Il corpo di mia madre (Marsilio). Anche se si narra dei mesi seguiti alla scomparsa della madre il lettore non si aspetti un’elaborazione del lutto o qualcosa di simile. Per intenderci, la prima volta che compare la frase del titolo il corpo in questione non è quello materno ricomposto nella camera ardente, bensì, in un flashback, quello «ricucito male» dopo un intervento fallito di chirurgia estetica. Un passo in particolare rivela la posizione dell’autore: «La famiglia, come la chiama lui, è da un pezzo che ha sbracato e gli amici l’hanno sempre saputo. E del resto nessuno se n’è mai stupito dal momento che sono tutti nella stessa condizione. Famiglie che tirano avanti per inerzia, che arrancano fra mille disagi e sotterfugi. Coppie che si rianimano solo nella maldicenza, nel disprezzo per chi ha di più o è più fortunato. Genitori che per mancanza di rispetto o disattenzione non hanno risparmiato nulla ai propri figli».
In posizione eccentrica è invece la Mitologia di famiglia di Cristina Guarducci (Fazi, in uscita il 21 ottobre). Il romanzo dispiega una luminosità settecentesca che ricorda un po’ il Calvino delle Cosmicomiche e un po’ Palazzeschi, e che sarà sempre la benvenuta in una letteratura più incline al ghigno o allo spasimo che alla leggerezza e al sorriso. La cadenza è declamatoria, iperbolica, follemente altisonante; i personaggi del clan familiare formano un circo di matti pronto a gettarsi senza paracadute nelle braccia del fiabesco più derisorio: «Che fortuna avere un Babbo assassino che ci ha lasciati crescere forti, alti e prepotenti come lui! La Zia ci ammira quando entriamo scalpitanti nel suo appartamentino fornito come una gioielleria o una pasticceria di lusso. La Mamma ci incita ad atti vandalici: “Spacca il vaso, Carlina, vedrai che bei vetrini colorati raccogli dopo!”. La Zia sorride dolcemente e le dice che è fiera di lei, che è così che si allevano i figli, che è così che lei stessa è diventata immensamente ricca. Ci bacia a uno a uno sulle gote e ci predice un grande avvenire».


Sembra dire, la Guarducci: cari politici, sociologi e massmediologi tutti, siete ancora decisi a difendere la famiglia dai suoi nemici? Bene, tutto sta a intendersi su chi sia il nemico. Perché se poi la famiglia è quella che decido io, cosa succede? Scommettiamo che all’ultimo minuto farete dietrofront?

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