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La guerra che Israele può perdere

La guerra che Israele può perdere

Nonostante le differenze, l’atmosfera politica israeliana elettrizzata dal rapporto della commissione Winograd sulla guerra nel Libano, ha elementi in comune con quella che precedette la guerra del 1967. C’è la sfiducia della nazione nel primo ministro Olmert come allora per il premier Levi Eshkol. C’è la richiesta a voce di popolo di un ministro della Difesa competente al posto dell’attuale come allora ci fu per Moshe Dayan. C’è la possibilità che gli arabi interpretino come fece Nasser la crisi interna israeliana come una prova di debolezza favorevole ad una loro azione di forza (missili e terrorismo) capace di piegare il nemico sionista. C’è, come allora, in Occidente l’impressione che lo Stato israeliano sia alla fine del suo «antistorico» tentativo di creare una sovranità ebraica moderna da una «società sacra» fossilizzata. C’è una errata valutazione della forza militare, democratica e morale di un popolo che nonostante la denunciata corruzione del sistema politico e sociale, prende molto seriamente le minacce di un nuovo Olocausto.

Le differenze fra la crisi del ’67 e quella attuale sono anch’esse notevoli. Allora Israele era un Paese economicamente povero, oggi è la «tigre economica» del Medio Oriente. Allora Israele era in guerra con l’Egitto; oggi in pace. Nel 1967 la Lega Araba pronunciò a Khartoum i tre famosi anatemi anti israeliani. Nel 2007 a Riad sotto la guida dell’Arabia Saudita preoccupata dal radicalismo islamico sciita, la Lega Araba ha detto sì ai negoziati, sì al riconoscimento, sì alla pace con Israele. Oggi c’è una forza internazionale schierata lungo la frontiera israeliana col Libano molto più consistente di quella allora schierata a Gaza e sugli stretti di Tiran egiziani. Ma come allora il durissimo rapporto della Commissione Winograd ha creato una situazione esplosiva che non attende che delle scintille per diventare incandescente.

Dall’esterno, la scintilla potrebbe partire da Gaza (o dal Libano, ma con meno probabilità) col lancio di missili. Se faranno vittime o colpiranno (come è mancato poco domenica scorsa) un bersaglio strategico la reazione israeliana sarà tanto più violenta in quanto condotta da una dirigenza politica e militare accusata di debolezza e di incompetenza. Dall’interno, una altrettanto drammatica scintilla potrebbe essere la caduta del governo Olmert che già ha perduto pezzi e a cui anche il ministro degli Esteri Tzipi Livni ha suggerito di dimettersi rischiando lei stessa di essere licenziata. Lunedì il premier ha inferocito il Paese proclamando il suo rifiuto a dimettersi «onde correggere gli errori» denunciati dalla Commissione di inchiesta attraverso un comitato di alti funzionari che entro trenta giorni dovrebbe presentare proposte su come realizzare queste correzioni. Ieri Olmert ha affrontato l’ira di migliaia di manifestanti riuniti a Tel Aviv sulla piazza Rabin. Ammesso che non si pieghi alla volontà popolare o che non riesca a rimpastare il governo in maniera da ridargli fiducia, dovrà affrontare una difficile data. Si tratta del 31 maggio, giorno in cui il Partito laburista, principale partner del Partito Kadima nell’attuale coalizione, sceglierà il suo nuovo capo e probabilmente deciderà di lasciare il governo.

In questa confusa, appassionata atmosfera, difficile fare pronostici. Se non sarà possibile creare (come nel 1967) un esecutivo di unione nazionale, l’alternativa saranno elezioni anticipate. Alternativa che metà dei deputati temono, sapendo che non saranno rieletti nella prossima legislazione; che l’establishment militare ed economico vorrebbe evitare o per lo meno posporre per non trascinare il Paese in mesi di campagna elettorale.

Essa confermerebbe la debolezza di Israele agli occhi degli arabi, danneggerebbe lo sviluppo economico del Paese, ma potrebbe anche aprire la strada ad azioni extraparlamentari che metterebbero in pericolo la democrazia israeliana stessa.

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