La guerra fa scendere la popolarità di Bush ai minimi storici

Soltanto il 40 per cento degli americani approva la sua condotta, anche se tre su dieci sono contrari al ritiro delle truppe. Il record negativo fu di Nixon nel 1973, col 37%

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

«Arrivano i nostri». Una carovana di sostenitori di Bush sta concludendo il suo rally di solidarietà con il presidente assediato nella sua piccola ridotta. Sono in tremila, dovrebbero bastare a estricarlo dalla trappola in tempo per la fine della sua lunga e perturbata vacanza estiva. Non ci saranno scontri frontali con gli assedianti. Si avvicina il giorno in cui «mamma pace» Sheenan Casey ha da tempo annunciato che toglierà le tende. Non abbandona la causa: porterà adesso il suoi sit in nei collegi elettorali dei deputati e dei senatori. Crawford ridiventerà l’Eden di un’America patriottica e pia, il Paese con un solo semaforo, cinque chiese e nessun bar, atipico dell’America com’è ma forse tipico dell’America come vorrebbe essere, arricchito da un finto cimitero con delle finte lapidi e dei nomi veri di caduti in una guerra vera.
Eppure Bush troverà, al suo rientro alla Casa Bianca, che qualcosa è cambiato, o sta cambiando, e non in suo favore. I nuovi assedianti sono molto più potenti e allarmanti: sono i sondaggi, che confermano, ma accelerando, un trend sempre meno favorevole. La popolarità di George Bush ha toccato un nuovo record negativo. La Gallupp ha scoperto che sono appena 40 su 100, adesso, ad approvare il modo in cui egli governa. Peggio di lui ha fatto, fra i presidenti rieletti e a questa data del secondo mandato, soltanto Richard Nixon, che nel 1973 aveva solo il 37 per cento dei consensi; ma già stava rotolando sullo scivolo Watergate verso l’impeachment e le dimissioni. I due colleghi più recenti, Bill Clinton e Ronald Reagan, veleggiavano sopra il 60 per cento.
Il consenso per Bush non è, si badi, crollato: si è trattato, almeno fino a ieri, di una lenta erosione che a lungo ha potuto dare l’impressione della stabilità e quindi è stata a lungo sottovalutata, anche perché non è giustificata da brutte notizie dall’economia. Al contrario, essa segna, statisticamente, i suoi maggiori successi da quando Bush è alla Casa Bianca, dall’alta misura della crescita al basso livello di disoccupazione. Si smentisce per una volta il non infondato luogo comune secondo cui gli americani ragionerebbero, e voterebbero, unicamente col portafoglio.
Questa volta il disagio ha un nome solo: Irak. La maggioranza degli americani è ora convinta che la guerra sia stata un errore: il 53 per cento secondo l’Associated Press, il 54 per cento per Gallup. Il livello di opposizione è quasi identico a quello che si manifestò nel 1968 in Vietnam, qualche mese dopo la massiccia offensiva delle forze comuniste. Anzi il declino dell’appoggio alla guerra scende ora più rapidamente di allora. Solo 38 americani su 100 approvano la conduzione del conflitto.
La maggioranza respinge ora la tesi centrale dell’amministrazione Bush, dell’intervento che sarebbe giustificato perché «tiene lontano il nemico dalle nostre spiagge e ci rende più sicuri». Cinquantasette americani su cento, al contrario, pensano ora che la guerra «ci espone di più ai rischi del terrorismo». A cambiare idea sono stati soprattutto gli elettori giovani e gli indipendenti, fra i quali il candidato democratico John Kerry prevalse nel novembre scorso di appena un punto, e che se si votasse oggi sarebbe invece avanti di ben 18 punti.
Un altro tipo di sondaggio, meno autorevole, registra addirittura un no alla guerra del 76 per cento, e rivela inoltre che il 38 per cento degli americani sarebbe ora pronta a partecipare a dimostrazioni di protesta.
Si verificano infine le prime defezioni nel partito del presidente. Il senatore repubblicano Hagel, un «falco» eroe di guerra in Vietnam, aveva consigliato a Bush di attaccare l’Irak con il doppio o il triplo delle forze usate, ma adesso dà il consiglio opposto.
A Bush rimangono però ancora due agganci importanti con l’opinione pubblica: un buon terzo di coloro che condannano la guerra sono però contrari a un ritiro anticipato dall’Irak, che «assomiglierebbe a una fuga e lascerebbe dietro il caos». E Bush conserva un margine, anche se assottigliato, di fiducia come guida nella guerra globale contro il terrorismo.

Ed è questa la carta che egli intende continuare a giocare. Cominciando dall’11 settembre, allestendo a New York una massiccia cerimonia di commemorazione della strage trerroristica del 2001. Un ricordo alle vittime e un impegno a continuare la lotta.

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