La guerra di Mogadiscio ridimensiona Al Qaida

La facilità con cui l’Etiopia e il legittimo governo somalo hanno vinto la guerra lampo contro il regime delle Corti Islamiche è studiata con grande attenzione dagli esperti militari. Questa volta le temutissime brigate internazionali di Al Qaida si sono dissolte come neve al sole. Le Corti somale avevano una presenza capillare nel Paese e milizie più forti e meglio organizzate dei talebani afghani. Eppure in una settimana le truppe etiopi hanno messo in rotta sia le Corti sia i loro alleati di Al Qaida, avanzando per cinquecento chilometri da Mogadiscio alla seconda città del Paese, Chisimaio, in soli tre giorni. Sono stati così smentiti il mito dell’invincibilità delle brigate di Bin Laden e le teorie secondo cui un movimento ultrafondamentalista che controlla il territorio attraverso una rete di moschee e di servizi sociali è praticamente impossibile da battere.
Come è stato possibile? La domanda va al di là della Somalia perché proprio in questi giorni cominciano a essere pubblicati in Israele i rapporti delle ben undici commissioni d’inchiesta istituite per capire che cosa è andato storto nella guerra del luglio 2006 contro gli Hezbollah. Al di là di numerosi particolari tecnici, i rapporti tornano su un tema con cui l’Occidente dovrà sempre più fare i conti: la nozione di «guerra post-eroica», insegnata anche nelle scuole di guerra israeliane da docenti formati negli Stati Uniti. La «guerra post-eroica» è una guerra in cui i risultati ottenuti sul terreno sono soltanto uno dei quattro fattori da valutare nel bilancio di un’operazione militare: ugualmente, se non più, importanti sono le reazioni dei media nazionali e internazionali, il numero di caduti nelle proprie forze, le perdite inflitte al nemico - che non devono essere eccessive - e soprattutto i «danni collaterali», cioè le vittime civili. Mentre ai tempi della guerra classica o «eroica» cento nemici uccisi erano considerati perdite inflitte all’avversario, nella «guerra post-eroica» si tratta di cento corpi che saranno mostrati dalla Cnn o da Al-Jazeera e potranno far perdere al vincitore la guerra mediatica, non meno importante di quella combattuta sul terreno. La dottrina prevalente di questa guerra post-moderna è che è possibile combatterla affidandosi il più possibile alla tecnologia - bombe intelligenti, aerei, computer - e il meno possibile ai combattimenti nei villaggi e nelle città.
Il terrorismo islamico, con le sue guerre asimmetriche, ha dimostrato che la guerra «post-eroica» al massimo può essere vinta a metà. Senza infliggere al nemico perdite pesanti - e subirne tra le proprie truppe, come avviene quando si combatte corpo a corpo e casa per casa - gruppi come Hezbollah o Al Qaida non possono essere completamente sconfitti. L’Etiopia nella sua campagna di Somalia è tornata alla guerra classica, sul campo, affidata alla fanteria: e sul campo fra un esercito bene addestrato e Al Qaida o le bande delle Corti Islamiche non c’è partita. Certo, Hezbollah è più forte delle Corti Islamiche, ma anche l’esercito israeliano, Tsahal, è molto più potente del pur organizzato esercito di Addis Abeba. Indubbiamente la guerra «post-eroica» si vende meglio all’opinione pubblica (il che è meno rilevante in Etiopia, che non è un paese veramente democratico).

Ma la lezione somala è che, quando il terrorismo controlla un territorio, alla fine lo si batte con la guerra classica. La guerra è una gran brutta cosa. Ma, quando purtroppo si è costretti a farla, è meglio farla seriamente e non scambiarla per un videogame.

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