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Bibi e lo scoglio della pace

Lo scoglio della "seconda tappa". Serve l’addio dei terroristi alle armi

Bibi e lo scoglio della pace
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Nella reggia di Mar-a-Lago, Netanyahu ha dunque affrontato l'impossibile incontro conclusosi ieri sera: gira il palcoscenico, fuori Zelensky, Bibi è stato invitato a partecipare al grande disegno della pace mondiale, e anche qui ci sono problemi. Ma la matassa intricata degli interessi comuni e insieme delle discrepanze sull'ideale che Trump disegna per la sua biografia non sconvolge il feeling di un solido rapporto, sia fra i due che fra la democrazia americana e quella israeliana. Trump dice a Netanyahu che senza di lui Israele sarebbe stato distrutto, Bibi ribadisce Israele «non ha mai avuto un amico come il presidente Trump alla Casa Bianca».

La battaglia è comune e Israele sta in un avamposto molto pericoloso. Si è visto di nuovo un accordo strategico e ideale, le smagliature ovvie si ritessono nei giorni della guerra che l'Islam estremo impone all'Occidente. Trump sa che cosa sia Hamas, anche se vorrebbe che ormai Israele stesse più quieto. E questo è il sesto incontro, un numero incredibile, nel giro di un anno. Trump vorrebbe una pace natalizia impacchettata per la sua biografia. Ma sa bene che non è così a portata di mano. E Israele vorrebbe regalargliela, ma se non disarma Hamas e non porta tutti gli ostaggi a casa, la sua stessa esistenza diventa fragile mentre i lupi si nascondono fra le dune.

Bibi va a casa ricco del sostegno basilare di Washington caput mundi anche nelle diversità, anche se Trump vuole cominciare la ricostruzione di Gaza: ma occorre che a Hamas vengano tolte le armi, secondo l'accordo del 29 settembre, e solo Israele è disposto a farlo. Certo, la Turchia e il Qatar sarebbero disposte, forse, ad agire. Hamas ha dichiarato che le consegnerà solo ai suoi amici, innanzitutto all'Autorità Palestinese. Ma Israele sa che Erdogan e il Qatar altro non farebbero che conservarle per la prossima puntata, e non è disposta a concederlo. Netanyahu più che a una vera campagna a Gaza ha da pensare a rafforzare la struttura di difesa generale: sa che la Giudea e la Samaria pullulano di terroristi e che l'Iran e il Qatar, e gli altri amici di Hamas nel mondo di cui l'Italia ha dato un saggio in questi giorni, seguitano a mandare armi e denari. E anche che l'Iran prepara un riarmo balistico intensivo che deve essere fermato, come gli Hezbollah che ancora non cedono le armi. Trump pensa «Ahi, questo Medio Oriente», ma sa che gli conviene alla fine coprire le spalle al suo unico sincero alleato. Netanyahu, a sua volta, vorrebbe agire contro Hamas e contro l'Iran, ma sa che Israele ha un bisogno vitale di andare d'accordo con Trump. E Trump sa che Israele alla fine è il grande muro di difesa della democrazia occidentale nel mezzo di una giungla jihadista. L'accordo fra loro è garantito dal manto comune della difesa della democrazia, anche se Trump soffre le complicazioni che Israele porta con sé, incluso l'antisemitismo e il dono di 4 miliardi l'anno che gli Usa danno a Israele. Su questo però lavora duramente un team israeliano che disegna una nuova concezione in cui non ci siano regali, ma un comune concetto di ricerca-business-tecnologia in comune. I successi come quello della messa in funzione del primo sistema di difesa a laser, Or Eitan, sono una via maestra con le mosse di Bibi in questi giorni: l'accordo con Somaliland che lo colloca come partner sullo stretto di Ormuz sul passaggio internazionale del commercio di energia e contro gli Houthi, proxy iraniani; e l'incontro con la Grecia e Cipro che disegna un fronte di difesa mediterranea e certo non fa piacere all'egemonia islamica.

Netanyahu è andato negli Usa con i genitori dell'ultimo rapito da restituire, Ran Gvili. È un segnale forte di identità nazionale. Trump desidera parlare di pace, ma ne deve parlare con un piccolissimo Paese che sa combattere e pensare.

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