
Attaccare e occupare, evacuare e sfamare. Sono le due parti e le quattro fasi del piano con cui Benjamin Netanyahu e i falchi del suo governo puntano ad occupare i territori attorno alle rovine di Gaza City, ovvero quel 25 per cento della Striscia non ancora controllato dall'esercito israeliano. Una Striscia che nelle parole di Netanyahu non verrà però annessa da Israele, ma affidata ad un non meglio specificato «governo civile di Paesi arabi». Ma tra il dire e il fare ci sono di mezzo un milione di sfollati palestinesi, due brigate di Hamas pronte a vender cara la pelle e la ventina di ostaggi ancora in vita. Ostaggi destinati a venir uccisi nel caso Tsahal si avvicinasse alle loro posizioni.
Per non parlare dell'elemento forse più difficile da soppesare quando si valuta un piano bellico ovvero l'indignazione e l'orrore che i suoi dettagli concreti possono generare nell'opinione pubblica nazionale e internazionale. Questa rischia di essere l'incognita più grossa per un Netanyahu pronto a chiedere ad un esercito moralmente sfinito e svilito da 671 giorni di guerra di restare sul campo di battaglia per altri quattro o cinque mesi. Non a caso il Capo di stato maggiore Eyal Zamir - il generale incaricato di realizzare quel piano - è il primo a sostenere che «la conquista della Striscia trascinerà Israele in un buco nero». Quel buco nero nelle parole di Zamir costringerà Israele ad «assumersi la responsabilità di due milioni di sfollati palestinesi», affrontando «un altro anno di operazioni», esponendo i soldati ad «attacchi di guerriglia» e «mettendo a repentaglio le vite degli ostaggi».
Per capire cosa intenda il generale basta mettere da parte l'asettico tecnicismo dei piani guerra e ricordare che tra le rovine di Gaza City vivono accampati un milione di sfollati. Il piano dell'esecutivo Netanyahu prevede di sfollarli con la forza e trasferirli al Sud. Ma per farlo Tsahal dovrà vedersela con i militanti di Hamas di certo poco propensi a privarsi di quell'insostituibile scudo umano. In questa situazione «deportare» significherà combattere in mezzo ai civili causando nuovi massacri. Ma significherà anche rischiare pesanti perdite. Tra le macerie di Gaza City e dintorni non si nascondono solo le prigioni degli ostaggi, ma anche reti di tunnel ancora sconosciute. Reti che l'esercito, ritiratosi da Gaza City oltre un anno fa, non ha fatto in tempo né a trovare, né a bonificare.
Alle difficoltà tattiche s'aggiunge la possibilità che la «guerra della fame» - giocata a cavallo tra realtà e propaganda - diventi moralmente insostenibile. Il trasferimento nel Sud della Striscia di un altro milione di persone rischia di accentuare la carestia evidenziando ancor di più le carenze nella distribuzione degli aiuti alimentari. Secondo fonti israeliane Washington sarebbe pronta a mettere sul tavolo - d'intesa con il Qatar e altri paesi del Golfo - almeno un miliardo di dollari per garantire gli aiuti e aggiungere altri 12 centri di distribuzione ai quattro gestiti fin qui dalla fallimentare «Gaza Humanitarian Foundation». Promesse a cui non è facile credere visti i disastrosi risultati inanellati fin qui. Com'è difficile credere che l'Arabia Saudita, Paese custode dei luoghi santi dell'Islam, possa sottoscrivere un piano che punta a spingere i civili palestinesi fuori dalla Striscia.
Senza contare i problemi interni a Israele.
Tenere sul terreno per almeno cinque mesi le 4 o 5 divisioni previste dal piano significa mobilitare almeno 80mila uomini richiamando quei riservisti che in questi 671 giorni di guerra hanno già dovuto rinunciare al lavoro o a parte dei guadagni per servire il Paese. E soprattutto chiedere ad un esercito, tra le cui fila si moltiplicano i suicidi generati dallo stress post traumatico, di continuare una guerra senza fine. Una guerra a cui non credono più nemmeno i suoi generali.