A 82 anni la voce se ne andò per protesta, d’improvviso, dalla sera alla mattina. Un’autentica disgrazia, per una guida turistica. Dieci anni dopo, Odette Paolieri Della Monica, quasi afona, continua a fare quello che ha sempre fatto: sette giorni su sette, dalle 8 di mattina alle 6 di sera, 365 giorni l’anno. La più anziana guida turistica d’Italia ancora in servizio compirà 92 anni il 1° agosto. Il filo di parole che le sale dal petto, a tratti roco, a tratti stridulo, non ha perso l’antica dolcezza ma sembra doversi interrompere da un momento all’altro sotto i colpi di una tosse liberatoria. Invece niente. Lei parla, parla, parla, per ore, nell’italiano limpidissimo che le invidiavano persino l’insigne linguista Giacomo Devoto, compilatore dell’omonimo dizionario, e Indro Montanelli, che la invitava con la madre a Vignamaggio, nella villa un tempo appartenuta ad Antonmaria Gherardini, il padre di Monna Lisa, la Gioconda leonardesca.
Odette Paolieri Della Monica vive nell’unica città dove potrebbe vivere: Firenze. Da un po’ di tempo accompagna solo comitive di turisti giapponesi, aiutata da un’interprete che amplifica le sue spiegazioni. Quando le altre guide la incrociano per strada o nei musei, scroscia spontaneo un applauso di gruppo. «Mi voglion bene tutti: vigili urbani, carabinieri, poliziotti, tassisti, negozianti, osti. All’ingresso degli Uffizi sono l’unica al mondo esonerata dal metaldetector. “Fai passare la guida storica”, dicono i custodi. L’è una bella ’osa». Avrebbe un fratello gemello, se non fosse morto nella pancia di sua madre, al quarto mese di gravidanza. Venne al mondo sola, e la tenacia con cui s’era aggrappata alla vita fece gridare al miracolo anche i medici. La mamma, appassionata di musica classica, la chiamò come il cigno buono del Lago di Chajkovskij.
La natura aveva fatto in modo che nascesse per passare inosservata: appena un metro e 59 di statura - «una volta... ora sono andata giù, me ne accorgo dagli abiti che s’allungano» - e 42 chili di peso. Invece non c’è fiorentino o forestiero che non la noti subito, mentre cammina svelta, con passo sicuro, incurvata dal carico degli anni. Comprensibile l’empatia che la lega a Filippo Brunelleschi, «quest’omino alto una spanna che in 18 anni, dal 1418 al 1436, riuscì a coprire la crociera del Duomo con la più grande cupola in muratura mai concepita da mente umana, 54 metri di diagonale, io piango per l’emozione ogni volta che la vedo, costruita senza armatura, ma come avrà fatto? come gli sarà venuto in mente?, del resto si sa che il vino bono sta nelle bottiglie, non nelle fiasche».
Si capisce anche perché la decana delle guide turistiche negli ultimi giorni abbia sofferto le pene dell’inferno: questa domenica, dalle 8 alle 22, i fiorentini sono chiamati a votare nel referendum consultivo indetto dalla Giunta comunale di centrosinistra per stabilire se proprio accanto al Duomo debba o no passare una linea del tram, «un mostro sferragliante, lungo 32 metri, che con le sue vibrazioni sbriciolerà i mosaici del Battistero». E allora al diavolo la par condicio e il silenzio elettorale: «Pazzi! Io voterò sì per dire no alla tramvia. Ha capito quanto sono furbi? Chi non la vuole, deve tracciare la croce sul sì. Imbrogliano la gente».
Alla vegliarda poliglotta non fa difetto il coraggio. Ha preso dal padre, il colonnello Italo Della Monica, decorato con medaglia al valore e due croci di guerra per l’ardimento dimostrato in trincea sul Carso nel ’15-’18, amico personale di Umberto di Savoia, rimasto fedele al re anche dopo l’8 settembre del ’43, «in famiglia eravamo tutti monarchici, di quei monarchici, però, non di quelli d’oggi». Il marito, Annibale Paolieri, era tenente della Regia aeronautica quando la sposò, diciannovenne, appena uscita dal liceo: «Ci siamo voluti bene, ma avevamo caratteri troppo diversi. Chiesi io la separazione, una rarità per quel tempo. Ora lui vive a Quercianella, ha 97 anni».
La signora abita da sola in via Maggio, a due passi da Ponte Vecchio, nel rione degli artigiani e degli antiquari, forse la strada a più alto tasso di magioni storiche: Palazzo Corsini Suarez, sede dell’archivio contemporaneo del Gabinetto Vieusseux; la Casa del Buontalenti; Palazzo Ridolfi, sede dell’Istituto per l’arte e il restauro; Palazzo Corbinelli; Palazzo Michelozzi; Palazzo Ricasoli Firidolfi; Palazzo Martellini Rosselli Del Turco; «e soprattutto il palazzo di Bianca Cappello, il più bello di Firenze», ci tiene a farmi da guida fino al numero 26, «che Francesco I de’ Medici donò a questa ragazza veneziana di nobile famiglia scappata di casa, nominandola contessa e facendone prima la sua amante e poi la sua seconda moglie. Morirono a due giorni di distanza l’uno dall’altra, forse di malaria o forse avvelenati. Per secoli s’è favoleggiato di un cunicolo che il Granduca di Toscana avrebbe fatto scavare da Palazzo Pitti fino a questo edificio per poter raggiungere Bianca in segreto. Finalmente una decina d’anni fa, in seguito allo scoppio delle tubature del gas, è venuto alla luce».
Non conosce soltanto la Firenze di sopra. Anche quella di sotto.
«Vengo dall’archeologia, e forse si vede... Cominciai i primi scavi col celebre professor Doro Levi a Festòs, sull’isola di Creta. Dal ’53 al ’66 ho visitato tutti i Paesi del Medio Oriente, fino al Pakistan, nessuno escluso. A parte l’Oman, anche se ho avuto l’onore di portare in giro per Firenze il sultano Qaboos bin Said. Stavo via sei mesi l’anno».
Perché ritornò in patria?
«Per mia madre: il babbo era stato stroncato da un infarto. Siccome avevo un bisogno disperato di muovermi, un’amica mi consigliò: “Fa’ la guida, così perlomeno stai vicino a chi viaggia”. Cominciai con i visitatori che arrivavano sui treni della Wagons Lits Cook. Allora era un turismo d’élite. Oggi è zavorra. Nel ’68 partecipai al primo concorso per guida ufficiale. Centinaia di concorrenti, appena 18 posti. Passai l’esame in prefettura. Era una prova seria, non come adesso».
Adesso che accade?
«La Regione Toscana ha liberalizzato, si dice così? Tutti guide, compresi i vetturini. Per cui i giapponesi che vivono a Firenze sono stati autorizzati a fare da ciceroni ai loro connazionali senza avere alcun titolo. Ce ne sono già 60 che campano in questo modo».
Brutto affare. Ma a 91 anni non potrebbe riposarsi?
«E come fo? Non posso. Vivo del mio lavoro. Ho solo una pensione di 588 euro al mese».
Non può o non vuole?
«Tutt’e due. Al solo pensiero di lasciare, sento il cuore che si fa piccino. Io lavoro perché amo il lavoro. È la mia vita, mi aiuta spiritualmente, fisicamente e praticamente. Se non lavoro, muoio».
Chi sono i turisti migliori?
«I giapponesi. Attenti, quieti, gentili. Di tutto il mondo i giapponesi amano l’Italia e dell’Italia adorano Firenze. Arnolfo di Cambio cominciò la costruzione del Duomo l’8 settembre 1296. Settecento anni dopo, l’8 settembre 1996, sono venuti da Tokyo, da Osaka, da Nagoya, da Kyoto a fare le danze sacre tra sagrato e Battistero per commemorare l’inizio dei lavori. Loro, non i cattolici».
E i peggiori turisti?
«Ahimè, gli italiani. Sono di una maleducazione, di un’insensibilità... Non hanno rispetto di nulla. Sarà che oggi un viaggio se lo possono permettere tutti, non solo gli esperti d’arte e le persone di cultura amanti del bello. Lei dovrebbe vedere. Entrano in cattedrale e chiedono: “Ma questo è il campanile di Giotto?”. Un po’ largo, rispondo io. Oppure: “Ma l’Ultima cena di Leonardo dov’è?”. Forse a Milano, rispondo io. Vogliono vedere soltanto il David di Michelangelo perché è bello grande, dei David scolpiti dal Verrocchio e da Donatello ignorano persino l’esistenza. Non sanno che cosa sono gli Uffizi. I pochi che ci entrano, escono subito perché c’è il divieto di scattare fotografie. Per la rabbia sferrano calci ai muri: ci sono i segni delle pedate sugli intonaci. Gli spagnoli fanno concorrenza agli italiani. Anche gli americani non si può dire che brillino per buona educazione, ma almeno son simpatici».
I giapponesi che cosa vogliono vedere?
«Il Pantheon di Santa Croce, dove riposano Michelangelo, Galileo e Machiavelli, che io amo molto».
Perché?
«Perché sento che era l’uomo giusto. Invece non amo Savonarola, che veniva da Ferrara e non capiva nulla di Firenze e dei Medici. Lei consideri solo questo: prima di chiudere gli occhi, nel 1743, Anna Maria Ludovica de’ Medici, ultima rappresentante della casata fiorentina, lasciò tutto alla sua città scrivendo nel testamento: “E che nessuno tocchi nulla”. È così che sono giunti fino a noi 64 musei, fra grandi e piccoli. Ogni volta che ci penso mi salgono le lacrime agli occhi. Magari potessi vivere per un giorno nella Firenze dei Medici banchieri!».
Altri tempi, altre personalità.
«Oggidì la gente s’appassiona solo all’esteriorità. Ma l’arte non è esteriore. Devi entrare nel cuore delle cose, per capirla. Lei li vede i passanti per strada? Parlano al telefonino, gesticolano, ballonzolano, ti vengono addosso. Una volta mi hanno gettata a terra, ora cammino tenendo le mani avanti a mo’ di difesa. Sono usciti dal loro spirito».
Mi parli della Firenze della sua gioventù.
«Un salotto. Per strada ti sentivi come a casa tua. Non c’erano tutti questi negozi delle grandi griffe che sono di una volgarità terribile, sembrano stalle. In via Tornabuoni trovavi solo tea-room: Leland, Doney e Giacosa. A mezzogiorno gli ufficiali ci andavano in alta uniforme a prendere l’aperitivo: mantella azzurra l’artiglieria, mantella nera i carabinieri, cravatta bianca il reggimento Piemonte Reale di cavalleria, cravatta azzurra il 12° Cavalleggeri di Saluzzo. E le signore ad ammirarli con la coda dell’occhio. Uno spettacolo».
È vero, come scrisse Oriana Fallaci in La rabbia e l’orgoglio dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, che gli immigrati islamici urinano sul Battistero e hanno trasformato «in cacatoio» piazza del Duomo e dintorni?
«Sì, sì, sì. È verissimo, l’è tutto un gran sudiciume, vanno a fare le abluzioni nella Fontana del Nettuno. Conobbi la Fallaci all’ambasciata italiana di Atene, quando stava con Alekos Panagulis, e scoprimmo di avere in comune non solo l’amore per la città ma persino il parrucchiere, Mario di via della Vigna, che aprì nel ’48 ed è ancora lì, io ci vado dal ’49, pensi. Eh, quando si ha quasi un secolo, se n’è vista di gente...».
Di che mali soffre Firenze?
«Di un Comune che non ha la minima idea di ciò che conduce. I politici d’oggi pensano solo alla seggiola sotto il sedere. Mario Fabiani, il sindaco della rinascita dopo la guerra, era comunista ma amava Firenze. Piero Bargellini, il sindaco dell’alluvione, era democristiano ma amava Firenze. Giorgio La Pira, il sindaco santo, no, l’ha sciupata. Ha aperto i vecchi palazzi alla povera gente. Giusto. Ma la povera gente ha fracassato tutto. Intelligente, colto, però non era di qui. Che poteva capire di Firenze, lui, un siciliano rinchiuso a vivere con i domenicani nel convento di San Marco? Non ha saputo farla rispettare. Che ora vogliano metterlo sugli altari, mi pare un po’ troppo. Comunque, basta che non facciano santo Savonarola!».
E Leonardo Domenici, il sindaco della tramvia, diessino ora democratico, ama Firenze?
«Un burattino tirato con i fili. Io non l’ho mai visto camminare per le strade, parlare con i fiorentini, ascoltare le loro richieste e poi provvedere. Magari lo fa in segreto. So soltanto che per otto mesi ho tempestato Palazzo Vecchio di sollecitazioni affinché cancellasse una scritta oscena sulla casa di via dei Bentaccordi dove visse Michelangelo. Otto mesi! Ogni volta che passavo di lì con i turisti, mi vergognavo a morte. E ora se ne viene fuori con questa folle idea del tram in piazza del Duomo. Siamo tutti contro! Lo scriva. Le rotaie dovrebbero essere posate dove c’è la colonna che ricorda San Zanobi, il vescovo del IV secolo che parlava chiaro: era inverno e al passaggio delle spoglie mortali del santo un albero rinsecchito subito germogliò. I fiorentini ci hanno deposto mazzi di fiori freschi anche ieri. Sia ben chiaro: se il sindaco toglie la colonna per farci transitare la tramvia, noi si piglia il fucile!».
Buona o cattiva pubblicità quella che ha fatto a Firenze lo scrittore Thomas Harris ambientandovi i romanzi di Hannibal il cannibale, col corollario di film truci che ne sono stati tratti?
«Ne ho sentito parlare, ma non ho avuto il dispiacere né di leggere i primi né di assistere ai secondi».
Qual è la città che più assomiglia alla sua?
«Non ne vedo. Ci sarà pure un motivo se il Rinascimento è nato qui. A Palazzo Vecchio c’è il putto con delfino del Verrocchio che si regge in equilibrio su un piede solo. Io ho avuto la fortuna d’osservare questa scultura del maestro di Leonardo da Vinci staccata dal suo basamento per un restauro: stava su ugualmente. Ecco che cos’è Firenze: calcolo, proporzioni, prospettiva, linearità».
Ha mai visto qualcuno svenire in preda alla sindrome di Stendhal, che colpisce certi turisti troppo sensibili alla vista di tante opere d’arte?
«La sindrome di Firenze, vorrà dire. Sì, una volta m’è capitato con una giovane giapponese. Stavamo visitando la sala di Giotto agli Uffizi. Mi mostrò su un libro l’immagine dell’Annunciazione di Simone Martini e mi chiese d’accompagnarla a vederla. Forse erano anni che si preparava a quel momento, fatto sta che giunta davanti alla pala del maestro senese scoppiò a piangere e cadde a terra priva di sensi. Una troupe della televisione svedese lo venne a sapere e mi cercò per intervistarmi. Mi finsi la governante e risposi che la signora Paolieri era partita per gli Stati Uniti».
Perché lo fece?
«Odio il cinema e la Tv».
Allora non ha visto Roberto Benigni che recita La Divina Commedia.
«L’ho visto, l’ho visto, e devo dire che m’è pure piaciuto. Non mi piace quando fa lo sciocco. Ma perlomeno si sente che ama Firenze».
Vorrebbe che le spoglie mortali di Dante fossero traslate da Ravenna in Santa Croce?
«È vero che il Sommo Poeta studiò dai francescani di Santa Croce. Ma poi Firenze lo cacciò, e a ragione: era passato con i Bianchi, mentre qui erano tutti Neri. No, meglio che resti dov’è».
(405. Continua)
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