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Guida al purgatorio nell’era di Internet

Il purgatorio è adesso. Il Papa sta parlando davanti a novemila persone. Non sai se l’idea che ha in mente sia proprio questa. Ma questa terra di mezzo indefinita, questo pezzo di metafisica che, a differenza degli altri due, del paradiso e dell’inferno, non ha nulla di eterno, sembra lo specchio degli anni che stiamo vivendo. Il purgatorio è un’interruzione del futuro. C’è, ma fatichi a immaginarlo. Il tempo scorre, batte, ma quello che dovrebbe cambiare sta lì, fermo, immobile e ti chiedi se i titoli che hai letto oggi sui giornali sono gli stessi di ieri. È come in quel film, quello del Giorno della Marmotta, ti svegli e ricominci dal giorno prima. Il dopo non arriva mai. L’idea del purgatorio ti lascia sulla pelle una cicatrice di precarietà. Non c’è consolazione, così, mentre aspetti quello che dovrebbe avvenire, ti accorgi che l’angoscia è più infida della disperazione. Il peso che in questi anni non riusciamo a sopportare è proprio l’attesa. Come mai stiamo passando la vita ad aspettare che accada qualcosa? Il problema deve essere l’orizzonte. I nostri padri più o meno sapevano cosa aspettarsi. Non che il futuro fosse scritto, anzi, qualche volta poteva essere drammatico, ma è come se avessero la consapevolezza, o il coraggio, di riuscire a vedere oltre. Forse erano inguaribili ottimisti. Forse se vedevano la nebbia ci passavano in mezzo. Per troppi di noi invece è una scusa. È paura. E se dietro non c’è nulla? Se siamo solo figli di una promessa mancata?
Tutto questo, magari, non ha nulla a che fare con Benedetto XVI. Il Papa stava raccontando la vita di Caterina da Genova, la santa mistica con un passato piuttosto dissoluto, moglie di un ubriacone e con tanti peccati da farsi perdonare. Che c’entra il Purgatorio? Bè, Caterina ha scritto un trattato sul Purgatorio. Allora, direbbe Jacques Le Goff, era un’invenzione fresca di un paio di secoli. Il medievalista francese ritiene che la Chiesa abbia costruito la terza opzione per non cadere nel dramma dell’aut aut. Troisi se la sarebbe cavata con i cinquant’anni da orsacchiotto. Insomma, una via di fuga alla scelta binaria. Ma è un discorso che ci porta troppo lontano. Sono più importanti le parole di Ratzinger. Il Papa ha detto che il Purgatorio non è un luogo fisico. Forse non è neppure una dimensione metafisica. Il purgatorio è questo fuoco interiore che scava, angoscia, ti fa fare i conti con te stesso. Non è neppure un colpo di spugna. Non basta resettare il computer e tutti i peccati sono redenti. «La grazia non esclude la giustizia. I malvagi, alla fine, nel banchetto eterno, non siederanno indistintamente a tavola accanto alle vittime, come se nulla fosse stato». Il purgatorio non è una dimensione in cui tutte le vacche sono nere. Non è un corridoio per il nichilismo.
Meno male, perché il purgatorio ci assomiglia, ci è toccato in sorte. Noi non abbiamo le certezze del rosso e nero. Non camminiamo su una strada ferrata. Non costruiamo il mondo con i mattoncini di questa o quella ideologia. Cerchiamo una fede, ma poi alla fine ci spaventa confrontarci con qualcosa di assoluto. Chi lo ha mai visto l’assoluto? Il purgatorio è una catena di contratti a termine. È un inferno interinale. È questa storia che per esistere ti accontenti di avere un profilo da qualche parte. Sono le sigarette che fumi per fare i conti a rate con la vita o con la morte. È la gente che esce dal cinema dopo aver visto Hereafter di Clint Eastwood senza aver avuto, per fortuna, una risposta scientifica sull’aldilà. È la tristezza di quelli famosi per un giorno. Sono tutti quelli che stanno aspettando che la crisi finisca (chissà se qualche economista ha previsto che prima o poi accadrà). Banalizzando si può dire che abbiamo passato tutto il Novecento a immaginare il paradiso per poi sentirci all’inferno e che a questo punto preferiamo scontare il purgatorio. Non è che poi qui, in questo secolo, si stia definitivamente male. È che ancora ci stiamo abituando. Prendiamo le misure e ci costruiamo intorno un abbozzo di orizzonte culturale.
Prendete Lost, il telefilm, la serie tv. Siamo rimasti lì a chiederci se aveva un senso. Ipotesi, illuminazioni, esegesi. Neppure fosse la Bibbia. Tra le tante interpretazioni ce n’è una che resta affascinante. L’isola di Lost è il purgatorio. Questi naufraghi raccontati a frammenti non sanno dove si trovano, ma hanno flashback della loro vita passata, il mondo prima dell’isola, e flashforward della vita futura.

Il passato è alcol, rapine, peccati, tutti con una colpa da farsi perdonare. Gli sprazzi di futuro sono luminosi. L’interludio è il passaporto per rigiocare la partita. È la possibilità di conquistarsi una seconda vita.

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