Controstorie

Halima, kamikaze per forza sopravvissuta alla sua strage

Sposa bambina a dodici anni poi venduta ai terroristi. Drogata per farsi esplodere al mercato

Halima, kamikaze per forza sopravvissuta alla sua strage

Halima Adama: è questo il nome della sola kamikaze, di cui si ha notizia, a essere sopravvissuta a un'azione nella quale sarebbe dovuta morire compiendo una strage. La donna ha vent'anni oggi e vive sull'isola di Gomirom Domou. Per incontrarla occorre navigare per ore su una piccola piroga a motore tra le acque del lago Ciad. Le temperature sono infuocate, la paura di imbattersi in un drappello di uomini di Boko Haram nascosto tra i canneti o negli acquitrini accompagna per tutta la durata del viaggio, i soldati dell'esercito regolare non smettono di tenere le canne dei kalashnikov spianate e, solo quando l'imbarcazione attraversa un piccolo strato di limo e si arresta su una spiaggia arida e deserta, si comprende di essere arrivati sull'isola dove vive la donna che tutti oggi conoscono come «la kamikaze».

Dopo una marcia tra rovi, cardi e sterpaglie ecco la capanna di frasche di Halima Adama: è seduta su una stuoia di rafia e subito decide di raccontare il suo vissuto. «Quando avevo dodici anni sono stata data in sposa a un uomo che faceva il pescatore. Un giorno, nel 2016, mio marito mi disse che ci saremmo trasferiti su un'isola dove la pesca era più redditizia, ma mi ha condotta dai terroristi». La giovane donna estrae un cellulare e mostra la foto dell'uomo che le ha rubato la vita per donarla agli zelanti predicatori del jihad. Una foto sgranata mostra un giovane con le cicatrici tradizionali del popolo Boudouma a solcargli le guance, indossa una maglietta del Barcellona e sorride guardando l'obiettivo. Forse l'ultima istantanea di quel pescatore ciadiano prima che decidesse di abbracciare l'eresia di odio che impone una sacrale obbedienza alla morte altrui e propria. Halima Adama si accarezza le protesi delle gambe e prosegue raccontando: «Dopo un anno di indottrinamento, che ho trascorso vivendo isolata con altre donne e con un imam che ci faceva pregare tutto il giorno, mio marito è tornato da me. Lui era già divenuto un combattente jihadista, partecipava alle battaglie, ed è tornato solo per dirmi che mi aveva designata come kamikaze. Ero sconvolta, i capi mi convocarono, mi dissero che avrei compiuto il volere di Allah e che avrei dovuto fare una strage nel mercato di Bol. Da quel momento iniziarono a drogarmi per diversi giorni. Mi facevano delle iniezioni e mi dicevano che dovevo essere felice, che sarei andata in Paradiso e che Dio aveva voluto che quella fosse la mia missione. Non mi ricordo quanti giorni ho trascorso nelle mani di quegli uomini che mi drogavano e mi facevano il lavaggio del cervello, mi ricordo invece quando mi diedero la cintura esplosiva; io non potevo fare nulla, non potevo oppormi, altrimenti mi avrebbero decapitata». Ascoltarla significa guardare negli occhi un male terreno, che destabilizza, fa paura e sconvolge. E solo l'obbligatorietà della testimonianza resta come unico appiglio, cui aggrapparsi per non farsi sommergere dalla tragicità del racconto. Halima Adama accarezza di nuovo le protesi delle gambe e prosegue: «Arrivò il giorno dell'azione e io partì insieme ad altri terroristi. Eravamo un commando di 8 attentatori, uomini e donne ciadiane, nigeriane, nigerine e camerunensi, tutti loro avevano le cinture esplosive legate sul corpo, io invece la misi nella borsa; sebbene fossi stata drogata avevo troppa paura di morire».

La ex kamikaze non prende fiato nel rievocare l'orrore di cui è stata vittima e spiega: «Navigammo e marciammo per tre giorni per evitare le pattuglie dei soldati ma quando fummo a tre chilometri da Bol, venimmo intercettati dai comitati di autodifesa. Gli altri kamikaze che erano con me attivarono subito le cinture, ci fu l'esplosione, morirono tutti: i vigilantes e gli attentatori. Io fui l'unica a salvarmi, mi svegliai in ospedale senza gambe e senza più una vita».

La donna dopo essere stata soccorsa e condotta in ospedale ha trascorso un periodo in detenzione, poi è stata di nuovo accettata dalla sua famiglia e dalla sua comunità, oggi vive sulla remota isola del lago Ciad e quando le viene chiesto che cosa pensi del suo futuro, lei così risponde: «Io ho solo i miei genitori, e non troverò mai nessun'altra persona che mi sposerà. Chi vuole prendere in moglie una come me senza gambe e con una storia come la mia? Io non potrò mai perdonare né mio marito né Boko Haram per quello che mi hanno fatto.

Mi hanno obbligata a diventare una kamikaze, volevano che facessi del male e uccidessi la mia gente; nessuno potrà mai restituirmi la mia vita».

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