A 9 anni David Anzalone capì per la prima volta d’essere nato attore, il suo attuale mestiere. Ma fu il solo a rendersene conto, perché appena divenuto adolescente in municipio gli scrissero sulla carta d’identità, alla voce «professione», l’incredibile sentenza: «Handicappato». La gente, si sa, non va oltre le apparenze e le sue gli sono avverse fin dalla nascita: una tetraparesi spastica, cioè un deficit muscolare dei quattro arti, che gli provoca problemi di deambulazione e difficoltà nell’articolazione della parola. «D’estate i miei genitori mi mandavano in vacanza dalla nonna materna a Piticchio, un piccolo borgo medioevale, abitato perlopiù da anziani, nell’entroterra marchigiano. Ogni pomeriggio i nonnetti si radunavano in una piazzetta nei pressi delle mura. Mi sentivo i loro sguardi addosso. “Poverino, che disgrazia...”, mormoravano.
Pensai: vuoi vedere che stanno parlando di me? Ebbi uno scatto d’orgoglio:ma quale disgrazia, in fondo sono soltanto handicappato! Così decisi di andarmi a sedere proprio in mezzo a loro. Fuggifuggi generale. I pochi rimasti avevano l’espressione di chi pensa: “E ora? Lo guardo o faccio finta di niente?”. Finché un vecchietto prese coraggio ed esclamò: “Ma non è che per caso s’attacca?”. La “malattia”, intendeva. E io, di rimando: no, tranquillo, solamente se sputo. Ci fu un attimo di silenzio, poi tutti scoppiarono a ridere. In quel momento capii che con le risate potevo movimentare un po’ l’ambiente».
Passati 23 anni, è questo che David Anzalone continua a fare: ridere di se stesso. Su Internet, in televisione, a teatro (il suo monologo Targato H, che dal gennaio 2006 ha girato l’Italia, il 19 febbraio tornerà in scena a grande richiesta: prima tappa Milano, Teatro della Cooperativa), adesso anche in libreria, con Handicappato e carogna, edito da Mondadori, scritto a quattro mani con Alessandro Castriota. «Carogna» perché ad Anzalone, in arte Zanza, non fa certo difetto il sarcasmo, che esercita innanzitutto contro le persone nelle sue stesse condizioni. Infatti si presenta così: «Dopo tanti comici handicappati, finalmente un handicappato che fa il comico. Ci chiamano diversamente abili e tu stai tutta la vita a chiederti: ma a che cazzo sarò abile io?».
Nato a Senigallia nel 1976, vive da sempre a Cesano, una frazione spalmata sull’Adriatico. «Qui mi conoscono un po’ tutti, anche perché mi piacesocializzare. Praticamente sono stato un rompiballe fin da piccolo». Nei suoi racconti, molto crudi, Zanza prende di mira i luoghi comuni e il pietismo che lo circondano da quand’è nato e lo fa senza riguardi per nessuno. Come quando denuncia il cinismo dei genitori che accompagnano i figli handicappati alla visita della commissione medica incaricata di accertare il grado d’invalidità da cui dipende il vitalizio. «Non si chiedevano reciprocamente il nome del figlio, come si usa fare per fingere un reale interessamento. No, loro chiedevano con avida curiosità: “Ma il tuo, che percentuale ha?”. Un po’ come se si trattasse di titoli quotati in Borsa. L’apice di questo simposio d’economia alternativa fu quando fecero la domanda fatidica a mia madre e lei orgogliosa rispose: “Modestamente, il nostro è un 100 per cento!”».
A cos’è dovuta la sua tetraparesi?
«All’uso del forcipe durante il parto».
Da parte di un «ginecologo fascista», ho letto.
«Più che altro credo lo si possa definire un
nostalgico. Ma non è questo ciò che conta. Sia
nello spettacolo che nel libro mi piace creare
situazioni narrative surreali che scatenino la risata
e stimolino la riflessione».
A che età s’accorse della sua diversità?
«Ho sempre avuto coscienza del mio handicap,
in fondo siamo nati insieme. È lui che ancora
non si rassegna a stare con me».
Che studi ha fatto?
«Mi manca un esame per laurearmi in scienze
politiche, ma penso che non lo darò mai».
Mi parli della sua famiglia.
«È una famiglia normale, o almeno lo è stata
fino a che non sono nato io. Padre poliziotto,
madre casalinga. Ho una sorella che lavora all’estero,
forse perché s’è stancata di starmi vicino.
A parte gli scherzi, una famiglia molto unita».
«Se devo dirla tutta, la mirabolante e diffusissima idea che gli handicappati
siano persone normali,
come tutte le altre, è
veramente la più grande cazzata
in circolazione oggi nel
mondo», scrive nel libro.
L’avessi detto io, mi sarei
beccato una querela.
«Ma è la verità! Noi handicappati
non siamo normali.
Siamo diversi. È importante
ricordarselo, sempre. Le faccio un esempio:
se lo tenessero
ben presente gli architetti
che progettano le case e le città,
sicuramente ci sarebbero
meno barriere architettoniche.
Il fatto che lei non lo possa
scrivere la dice lunga su
quanto siano radicati il pregiudizio
e la paura del diverso».
Come vuol essere definito?
Handicappato? Disabile? Diversamente abile?
«Handicappato mi va benissimo. Detesto gli
eufemismi che servono a mascherare la paura
dell’incontro con l’altro».
Ha dichiarato che è «molto stanco di sentir parlare
di handicap in maniera tragica, cupa e grigia». Se n’è sempre parlato così? Oppure c’è
stato un punto di svolta?
«La parola handicap nasce nel Settecento, in
Irlanda,quando al posto delle moderne concessionarie
di auto c’erano quelle di cavalli, dove
la gente andava a comprare mezzi di trasporto
a quattro zampe. Raggiunto l’accordo sul prezzo,
l’acquirente metteva il denaro nel cappello
del venditore e si portava a casa il cavallo. Di
qui handicap: da handincap, mano nel cappello.
Significato altamente positivo perché voleva
dire: affare fatto. Un handicap è una faccenda seria,
ma la gente ne coglie solo la dimensione tragica.
François Rabelais, l’umanista di Gargantua
et Pantagruel, diceva che ridere è cosa
umana. Ecco, essere handicappati o avere un
familiare o un amico con un handicap fa parte
della vita, è cosa umana. In fondo si ride anche
della morte. Non capisco perché non si possa
ridere dell’handicap».
Le sue prime esperienze come attore?
«Ho cominciato a studiare dieci anni fa col
Teatro Stabile in Rete di Fano, per poi proseguire
con insegnanti come Naira Gonzalez, Yves
Lebreton e Leo Bassi. Chi ha creduto in me è
stato il regista Alessandro Castriota, fondamentale
nel migliorare la mia tecnica espressiva».
Quali disagi fisici e psicologici comporta il suo
stato?
«Diversi. Ma il più grande per uno spastico è
quando deve slacciare il reggiseno a una donna
».
C’è qualcosa in particolare che le piacerebbe
fare e che le è impedito dalla sua condizione?
«Capita a tutti di voler fare delle cose e di non
riuscirci per un motivo o per un altro. Mi sarebbe
piaciuto diventare il chitarrista dei Rolling
Stones. Visto lo stile di vita di Keith Richards,
non è detto che non succeda».
Quando ha scoperto d’essere una carogna?
«Di certo handicappato mi ci hanno fatto. Carogna
l’ho scelto io, però non ricordo quando».
Sentiamo alcuni esempi concreti della sua malvagità.
«Sono quasi tutti scritti nel libro. Lei mi capisce:
abbiamo lo stesso editore, non vorrà mica
che le sveli tutto “a gratis”? Ecco un esempio
della mia carognaggine».
Come mai la gente non sospetta che un handicappato
possa essere anche una carogna?
«Perché la gente è vittima dei preconcetti.
Considerare buoni a priori gli handicappati è
un modo per tenerli a distanza. I preconcetti
sono armi per difenderci, goffamente, da tutto
ciò che è diverso da noi».
Quanto dura «Targato H»?
«Circa un’ora e mezzo».
Recitare la stanca molto?
«Il giusto. La recitazione richiede impegno e
allenamento. Grazie al lavoro di formazione
personale e alla regia di Castriota, riesco a stancarmiconsoddisfazione,
miae degli spettatori,
almeno a giudicare dagli applausi scroscianti
in teatri come il Piccolo Jovinelli di Roma».
Non è uno spettacolo facile da affrontare.
«All’inizio il pubblico rimane un po’ spiazzato,
cerca di capire che cosa sta succedendo in
scena. Passati pochi minuti, comincia a ridere e
non si ferma più. Durante uno spettacolo per
una scuola superiore, nei posti in fondo alla
sala c’erano una decina di ragazzi che mi prendevano
in giro. Dopo poche battute hanno cominciato a ridere anche loro e mi hanno seguito
con attenzione sino alla fine. È stata una delle
più grandi soddisfazioni della mia vita».
In percentuale, quanti spettatori sospettano
che a teatro o nei suoi spassosi telegiornali su
Zanza.it lei stia simulando
d’essere spastico?
«Non saprei. Io non faccio
nulla per nascondere il mio
handicap, anzi a volte lo accentuo».
Nei suoi videoauguri vestito da Babbo Natale,
s’è mangiato
la renna con la scusa
della crisi economica. Crudelissimo.
Lo fa in ossequio al
ruolo che s’è dato oppure è
proprio cattivo?
«È un video alla Monty
Python pensato per far ridere,
per fare gli auguri e per
far comprare il libro. Tre argomenti
importanti, soprattuttoil
terzo. Ho ricevuto tantissimi
complimenti».
Pensa che riuscirebbe a far
ridere anche senza il turpiloquio?
«Non parlerei di turpiloquio, semmai di paradosso
e di iperbole, strumenti imprescindibili
per chi voglia fare il comico. Basti pensare a
Totò e a Paolo Villaggio».
I testi sono farina del suo sacco?
«Tutto il progetto è frutto della collaborazione
con Castriota. Insieme abbiamo realizzato il
libro, lo spettacolo e i video che circolano in
Rete. Alessandro è un visionario che ha il dono
della concretezza. Grazie a lui qualsiasi nostra
idea prende corpo. Insieme formiamo una miscela
esplosiva. Se la vita è fatta d’incontri, devo
dire che questo è stato un incontro magico».
Come ha conosciuto Castriota?
«Siamo entrambi di Senigallia ed entrambi abbiamo
la passione per il teatro. In più nessuno
dei due è normale. Come potevamo non incontrarci?».
Da quando fa l’attore è aumentata la considerazione
nei suoi riguardi?
«Non so se la gente mi consideri di più, però
ho più gnocca».
I suoi genitori che dicono di questo successo?
«S’erano appena rassegnati ad avere un figlio
handicappato. Quando ho deciso di fare il comico
sono ripiombati nella disperazione».
Il massimo della bontà per lei in che cosa consiste?
«Nel concedere un’intervista».
A scuola come se la cavava?
«Io bene, i miei compagni un po’ meno, considerato
che avevano a che fare con me».
È favorevole o contrario a scuole speciali o classi
differenziali per handicappati?
«Io sono per la mescolanza. È importante che
persone diverse possano imparare a confrontarsi
e a rispettarsi fin da piccole. Se cominciamo oggi
a dividere i bambini per categorie, domani avremo una generazione
di adulti incapaci
di rapportarsi con tutto ciò che è diverso da
loro. Praticamente una tragedia».
Ha rivelato d’essere stato comunista. Non le
bastava essere handicappato?
«Altra iperbole narrativa: se avessi detto che
ero di destra, qualcuno di sinistra mi avrebbe
obiettato la stessa cosa. E infatti il problema è
che nei rapporti umani ci si ferma sempre alla
superficie. Una volta incasellato il prossimo in
una categoria, destra/sinistra, handicappato/
normale, eterosessuale/omosessuale, nessuno
va più a fondo per scoprire la vera umanità
che c’è in ognuno di noi».
Non ha risposto alla domanda. È un fatto che
prende di mira volentieri l’editore del suo libro.
Eppure l’unico ministro spastico della storia repubblicana,
Antonio Guidi, sedeva in un governo
presieduto da Silvio Berlusconi.
«È come dire che la presenza di molti ministri
donna in un governo è garanzia di migliore qualità».
È ciò che penso.
«Questi argomenti, cari tanto alla destra uanto
alla sinistra, sono simbolici, servono a parlare
alla pancia degli elettori, ma non dicono nulla
di concreto. Un governo, di qualsiasi colore,
si giudica dalle scelte che fa, non certo dalle
caratteristiche fisiche dei suoi ministri».
Perché non si mette anche lei in politica?
«Troppa concorrenza».
Scherza o fa sul serio quando nel libro scrive
che la sua massima ambizione sarebbe imitare
lo spagnolo Josito, il primo disabile protagonista
di un film porno?
«Non scherzo mai su queste cose».
Che cosa c’è di sublime nella pornografia?
«Nella pornografia nulla, ma essere attore in
un film hard può avere i suoi vantaggi».
«Per me le donne sono come le Olimpiadi: ce
n’è una ogni quattro anni». Battuta divertente.
Vogliamo parlare della sessualità degli handicappati?
Seriamente, però.
«E se invece le chiedessi di parlare della sessualità
dei minatori cinesi? È una provocazione
per dirle che, secondo me, la sessualità è una
questione soggettiva: ognuno deve sperimentare
la propria via al piacere senza preclusioni.
E poi, tornando a me, è vero che ho avuto le
donne come le Olimpiadi però, ogni volta, ho
fatto il record»
Ha cercato anche l’amore a
pagamento, ma nemmeno
le prostitute l’hanno presa
sul serio. Non è degradante
contrattare la carne umana?
«Ero molto combattuto.
L’amore non si compra, mi dicevo.
Poi però, razionalizzando,
sono giunto alla conclusione che,
almeno nel miocaso,
si sarebbe trattato di un
noleggio. Era una straniera.
La mia camminata ondulatoria
la convinse che mi fossi
perso per strada. La cosa bella
fu che, non appena provavo
a spiegarle le mie serie intenzioni
di acquirente, lei mi
ripeteva: “Tranquillo, non
agitare, essere io qua con te!
Non agitare, adesso chiamo
polizia e faccio accompagnare te a casa”. Ho
voluto raccontare questa vicenda paradossale
per sottolineare che anche una persona ai margini
della società, come una prostituta, può diventare
prigioniera del pregiudizio secondo
cui l’handicappato è asessuato».
Sa di altri disabili che abbiano portato in scena prima di lei uno spettacolo satirico incentrato sull’handicap?
«Non mi risulta. E spero che non ce ne siano in futuro. Sa, io credo nel libero mercato, ma non sopporto la concorrenza».
(436. Continua)
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