Hezbollah sconfitto non rinuncia alle armi

È difficile credere che il Libano adesso ce la farà. Eppure ci prova ancora, ed è commovente: ieri sera il capo di Hezbollah, lo sceicco Nasrallah, ha ammesso la sconfitta e si è addirittura complimentato con i vincitori. Buona parte dei libanesi, soprattutto per merito dei cristiani risvegliati dal vescovo maronita Nasrallah Boutros Sfeir, andando a votare hanno scelto un Libano ancora arabo, e non dominato da interessi iraniani; pluralista, e non musulmano sciita; in cui una ragazza possa camminare per mano con un ragazzo. L’unico, solitario Paese arabo multietnico, multiculturale e multireligioso tenta ancora di liberarsi del continuo tentativo di asservirlo a una logica totalitaria, come nel ’58 quando i sunniti cercarono di forzarlo nell’orbita ultranazionalista di Nasser, nel ’75 la guerra civile portò l’Olp in posizione dominante e mise in giuoco Israele e la Siria, che solo due mesi fa aprendo l’ambasciata a Damasco ha formalizzato l’idea di non essere il padrone. Nell’82 la rivoluzione iraniana allungò le mani sul Libano con la nascita della forza armata degli hezbollah, che da allora hanno cercato di disegnare il Paese dei Cedri come punta della guerra islamista sciita, asservendolo al gioco bellico che chiamano “resistenza”: ma mentre si disegnavano come la testa di ponte del rifiuto antisraeliano e antioccidentale, un esercito armato di 50mila missili, che ama la morte e scambia con uomini vivi feretri e pezzi di soldati israeliani, l’amico più intimo dell’Iran e il più fedele fratello della Siria, cercavano anche, pazientemente, legittimità interna e internazionale.
La loro strada verso la legittimazione che dà il governo del Paese, di cui sono parte dal 2008, è paradossalmente coperta del sangue degli attentati contro i politici antisiriani, e della violenta rivolta di piazza che li ha portati al governo. Nasrallah ha avuto forza e successo nel costruire l’irriducibilità che riempie le piazze, brucia le bandiere americane e israeliane, terrorizza gli altri gruppi politici, e insieme a cucire la veste che lo ha reso forza istituzionale. Una scommessa: l’attuale sconfitta elettorale non lo metterà fuori giuoco, tutto resterà come prima, le armi di Nasrallah non resteranno a lungo nascoste dietro la schiena. Del resto gli hezbollah non sono mai stati maggioranza, semmai forza capace di condizionare le maggioranze in maniera decisiva col diritto di veto e con la minaccia di creare situazioni insopportabili. Non a caso il loro restare armati nonostante le risoluzioni dell’Onu e i tentativi dell’Unifil sono santificati dai loro mullah come nella indispensabile guerra dei Fedeli contro gli Infedeli. Hezbollah ha perso le elezioni perché la guerra del 2006 fu una scelta disastrosa per il Libano e la gente ha sofferto; perché il recente tentativo di sovvertire l’Egitto per conto dell’Iran ha avuto le gambe troppo corte rispetto alla rivendicazione di essere una forza nazionale di difesa da Israele; perché la componente cristiana, nonostante Aoun, suo alleato, non ci sta; perché è accusato in prima persona dal tribunale internazionale di aver assassinato Rafik Hariri e chissà quanti altri.
Ma tornerà subito a farsi sentire perché ha costruito uno Stato nello Stato nel sud del Paese, ultratecnologico e bellicoso. Può dare fuoco al pagliaio israeliano quando vuole, ridivenendo protagonista; perché gode della piena fiducia e degli aiuti permanenti e molto cospicui dell’Iran e della Siria; perché dal 2008 Hezbollah partecipa a un governo di coalizione cui garantisce una certa pace politica. Hezbollah ha avuto l’incredibile capacità, che ricorda quella del suo sostenitore Ahmadinejad, di usare comportamenti smodatamente aggressivi e farli diventare pane quotidiano, fino alla deglutizione: non a caso l’Inghilterra negli ultimi tempi cerca una strada verso il riconoscimento di quella che gli Usa per ora collocano fra le organizzazioni terroriste.

Hezbollah ha accuratamente costruito in questi anni il suo potere militare e quello istituzionale, punteggiandoli con scoppi e rapimenti. Il consenso gli interessa poco: la sconfitta non gli crea nessun impaccio democratico a imporsi.

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