«Ho ingaggiato uno 007 per cercare mia figlia»

Milano«Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato». Sono le prime righe del Processo di Franz Kafka, sempre citato per situazione giudiziarie in cui un innocente viene stritolato negli ingranaggi della mala giustizia.
E qualcuno calunniò anche Salvatore Lucanto, 48 anni perché il 26 gennaio 1996...
«...alle 5 del mattino, due uomini e una donna suonarono alla mia porta: erano agenti della squadra mobile», ricorda ora Lucanto.
La sua reazione?
«Subito pensai a un incidente in uno dei mie cantieri - Lucanto ha un’impresa edile, ndr - poi quanto mi hanno contestato la violenza su mia figlia Angela di sette anni, sono caduto dalle nuvole. Ma ho anche pensato: due giorni, chiarisco tutto e torno a casa».
Invece?
«Invece ai due giorni si sono aggiunti due anni e quattro mesi».
Cosa ricorda di quei momenti?
«L’arrivo in questura, le impronte digitali, poi a San Vittore, spogliato nudo e inviato alla mia cella: la numero 5 al VI Raggio. Trovo tre albanesi e un marocchino “Quello è il tuo posto” un letto a castello contro il soffitto».
Come ha passato quella prima notte?
«A contare gli scarafaggi. Poi la mattina dopo ho guardato fuori dallo spioncino ed è passato un detenuto grondante sangue, si era tagliuzzato con una lametta. “E quello?” ho chiesto. “Fatti gli affari tuoi” mi è stato risposto».
Come ha vissuto il carcere?
«Pensando a mia figlia. Ma non ho mai perso la fiducia di uscire innocente da questa vicenda e di poterla riabbracciare».
Neppure dopo la condanna a 13 anni?
«Già, rimediati nel 1997, il 19 marzo, festa del papà. No, mai perso la fiducia».
Sicuro?
«Be’ a marzo ’98 quando venne respinta la mia richiesta di scarcerazione ho pensato che non sarei più uscito. Poi a maggio la Corte d’Appello mi rimette in libertà».
Il resto è tutto in discesa: assolto in secondo grado, sentenza confermata dalla Cassazione. Il buon senso dice che ora potrà riabbracciare la figlia. Ma il buon senso, come si sa, non alberga nelle aule di giustizia. Il Tribunale dei minori conferma l’adottabilità della figlia che finisce in una famiglia in provincia di Varese.
E lei inizia a cercarla
«Una ricerca disperata, durata quattro anni. Poi il colpo di fortuna: nell’estate del 2005 in un documento trovo una dichiarazione di mia figlia che parla di vacanze ad Alassio. Io e mia moglie andiamo a passare tutti i fine settimana nella cittadina ligure fino a quando il 31 luglio, la vediamo per strada».
A quel punto per Salvatore e Raffaella è facile scoprire dove abiti la figlia, riprendere contatto con lei, farla tornare a casa. Ora c’è l’ultima battaglia: Angela, con l’adozione, ha perso il cognome Lucanto e adesso lo rivuole, e saranno ancora carte bollate. Ancora spese.
Quanto le è costata questa vicenda?
«Circa mezzo milione di euro».
Ora però è tutto finito, è sereno?
«No, ho ancora tanta rabbia dentro. Anche perché tutti, dal pm Pietro Forno che mi ha fatto arrestare e condannare, ai magistrati del Tribunale dei minori, assistenti sociali e psicologi, nessuno ha mai ammesso l’errore».
Ma accetterebbe le loro scuse?
«Forse da Forno, perché è stato indotto all’errore. Da tutti gli altri no, in loro ho visto la mala fede».
Ha mai pensato a qualche gesto estremo?
«Sono molto religioso e ho pregato molto.

Però ci sono stati dei momenti in cui ho pensato al peggio e mi dicevo “Una volta fuori li ammazzo tutti e poi mi uccido”...».
Salvatore si ferma, sorride, guarda sua moglie e i suoi due figli. Non c’è ne stato bisogno: ha vinto lui, con caparbietà, con fede. È stato all’inferno ed è tornato. Con Angela.

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