I 4 moschettieri che fanno risorgere il brandy italiano

I produttori artigianali in campo per rilanciare visibilità (e qualità) dell'acquavite di vino

Il problema è che il brandy non crea più l'atmosfera. Quello spot anni '80 è indelebile, tutti lo conservano fra i ricordi. Se però dai cassetti della memoria si passa ai mobili bar, si scopre che il brandy italiano oggi è come le balene: non è estinto, ma quasi.

Eppure il distillato di vino chiamato brandy (dall'olandese brandwijn, vino bruciato) fa parte della tradizione italiana da secoli. In particolare, a fine Ottocento la crisi del cognac dovuta alla fillossera aveva dato vita a marchi fortunatissimi fino agli anni '70: Vecchia Romagna Buton, Stock 84, Oro Pilla, Stravecchio Branca, Florio, René Briand. Poi, improvvisa, la crisi profonda. Il gusto che vira su whisky, rum e distillati bianchi, una comunicazione paleolitica e una qualità mediamente bassa, con prodotti industriali da supermercato non tutelati da un disciplinare rigoroso, segnano un tramonto che sembra irreversibile. Almeno fino ad oggi, quando quattro moschettieri (Dumas ci perdoni se usiamo i suoi eroi per dei concorrenti del cognac) si sono messi in mente di invertire la rotta e ridare dignità al brandy italiano.

La rinascita parte da Milano, dove i quattro hanno voluto presentare il loro «manifesto» per l'acquavite di vino di qualità. Un viaggio enogastronomico allo spazio Design Elementi Neff per spiegare la filosofia che unisce produttori artigianali diversi, ma tutti ortodossi e puntigliosi. Un bolognese, un bassanese e due trentini. Non sono gli unici, altri condividono la loro impostazione. Ma loro sono i soli ad aver avuto il coraggio di fare squadra, di combattere per mostrare il lato fieramente serio del brandy italiano.

C'è Guido Fini Zarri, il pioniere: erede della storica industria Pilla, dal 1986, dopo aver venduto l'azienda, ha deciso di seguire un sogno: «Fare il cognac italiano, roba che i big poi volevano tagliarmi la gola». Usa un alambicco charentais, quindi stile rigorosamente francese che crea bottiglie eccellenti. Come quelle di Mario Pojer, enologo e viticoltore che nel '74 ha iniziato con Fiorentino Sandri un percorso fra vitigni «eroici» di montagna e alambicchi: «In Cognac mi emozionai vedendo in fila sul tavolo le bottiglie prodotte dalle otto generazioni di una famiglia». Così nasce l'acquavite «Divino» Pojer & Sandri.

Il suo «vicino di casa» Bruno Pilzer è l'ultimo arrivato in questo mondo («come D'Artagnan», scherza) e -negli alambicchi trentini a bagnomaria da sempre utilizzati dalla famiglia per grappe e frutta - da qualche anno distilla anche un gin e vini locali, Schiava e Lagarino, per il grazioso brandy «Historiae». Infine c'è Vittorio Gianni Capovilla, maestro mondiale dell'alambicco, che dopo grappe, rhum agricoli ai Caraibi e la frutta ricercatissima che lo ha reso una specie di semidio in mezza Europa ha iniziato anche lui col brandy.

Insomma, a parte il mestiere non c'è molto che li unisca. Provenienza, alambicchi, uve, metodi, barili, stili: tutto diverso. E anche le loro bottiglie, che accompagnano elegantemente i piatti di Stefano Caffarri in un bel vortice di suggestioni che vanno dalla cremosità alle guizzanti note fruttate, raccontano tutte storie differenti. Ma con un comandamento condiviso: «Non inchinarsi ai grandi e alle loro dinamiche». Nasce così un piccolo decalogo, che va oltre il disciplinare e che - chissà - potrebbe affiancarlo, o spingere per modificarlo. Si parte dalla cura maniacale per il vino, che non può essere mal conservato o di risulta, come purtroppo spesso accade. Si rifiuta ogni sofisticazione, dall'anidride solforosa in fermentazione all'aggiunta di trucioli, aromi, zucchero o caramello (tutti legali, ahimé) in invecchiamento. Si scelgono alambicchi non industriali che estraggano gli aromi delicatamente.

L'obiettivo è chiaro: parlare ai consumatori, sempre più attenti alla trasparenza e alla qualità, per far capire che il brandy non è solo un liquore scadente da nonni in calzoni di velluto. E che fra le pieghe di leggi caotiche c'è qualcuno che invece ci mette tecnica, arte e anima.

Sono i veri artigiani, quelli che come ricorda Capovilla «provano gioia nel creare qualcosa di puro come piace a loro, perché la bellezza è una promessa di felicità».

Occorrerà costanza, ma il messaggio passerà. «Facciamo il miglior brandy italiano, ma che nessuno compra», sorride amaro Pojer. È tempo che le cose cambino.AlMil

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