Luca Testoni
Un anno fa di questi tempi cinque giovani musicisti che si erano ribattezzati Clap Your Hands Say Yeah, senza etichetta e con pochi concerti alle spalle, si iscrivevano al sito http://myspace.com e mettevano in Rete una manciata di brani da scaricare gratuitamente.
Tempo di un paio di mesi e l'indie-rock esuberante, melodico e contaminato prodotto dal leader Alec Ounsworth (voce e chitarra), dai fratelli Tyler e Lee Sargent (rispettivamente basso e chitarra), da Robbie Guertin (chitarra e tastiere) e da Sean Greenhalgh (batteria), aveva già conquistato il popolo di Internet.
Su centinaia di blog ed e-zine musicali made in Usa (una per tutte: www.pitchforkmedia.com) non si parlava di altro che di questa band dal nome bizzarro («Quando finalmente riesci a suonare in pubblico ti aspetti che la gente batta le mani, esulti e segua il tempo. Darci questo nome ci è sembrato di buon auspicio per la nostra attività», hanno spiegato) saltata fuori dal pentolone di creatività che è Brooklyn in questi ultimi anni.
Come per qualsiasi film o libro di cui si parla (e si scrive) fin troppo, era inevitabile che ci fosse una certa diffidenza al momento dell'uscita all'album, omonimo, autoprodotto e, almeno in un primo momento, completamente autodistribuito.
Diffidenza che è tuttavia svanita all'ascolto della dozzina di tracce di un cd dai colori sgargianti (oggi nei negozi di mezzo mondo grazie al contratto con la label britannica Wichita) decisamente vitale, effervescente e ricco di trovate. Che va al di là del mero effetto moda e/o novità e non impiega molto a sciogliere le riserve di una buona fetta di critica musicale (anche di casa nostra) che li ha giudicati un po' troppo derivativi. Quasi che il loro sound non fosse farina del loro sacco, ma puro e semplice revival.
È innegabile, influenze e rimandi abbondano: dalla passione per il post punk (Talking Heads, Television) e la vecchia new wave (Joy Division) a quella per Dylan e i Velvet Underground e il rock a bassa fedeltà e un po' fuori dagli schemi tipico di Pavement o di Yo La Tengo. Eppure l'impressione è che Ounsworth («La sua voce, nasale e spesso strascicata, è debitrice ai nervi scoperti di David Byrne», è stato detto) e compagni possiedono qualità, attributi e visione originale per aggiungere un tassello importante nella costruzione del rock prossimo venturo.
Una musica mai scontata, fumantina e imprevedibile il giusto che, a prescindere dagli strumenti utilizzati (siano essi chitarre elettriche o organi, armonica o arpa...), riesce a regalare atmosfere accessibili e che fanno stare bene. Che altro si può chiedere di più a un disco?
Questa sera (ore 21.
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