È stato un Matisse italiano: con lo stesso senso, tutto veneziano, del colore, e in più (o in meno, a seconda dei punti di vista) un gusto quasi barbarico della materia, una sorta di horror vacui che lo portava ad affollare limmagine di segni, oggetti, corpi, dipinti con pennellate spesse due o tre dita. Siamo parlando di Mario Cavaglieri, di cui Rovigo ha allestito una grande antologica, la più significativa mai dedicata allartista (a cura di Vittorio Sgarbi, Palazzo Roverella, fino al 1° luglio, catalogo Allemandi).
Cavaglieri è stato un fauve. In questo senso, un isolato in Italia, dove lespressionismo è sempre stato un fenomeno sporadico, spesso avversato. Non per niente un osservatore poco diplomatico come De Chirico nel 1920 paragonava le sue tele sovraccariche di colore «a qualche iperbolico sterco di bue, assecchito nella polvere duna strada provinciale».
In realtà, nellambito dellespressionismo (o, si potrebbe dire, del post-impressionismo, o come altro si voglia chiamare una pittura affidata tutta al piacere del colore) Cavaglieri è stato in Italia una delle voci maggiori. E oggi lo si può comprendere meglio, dopo lesperienza dell'informale, ma anche di certa pittura selvaggia degli anni Ottanta. Se Derain diceva: «Bisogna far esplodere il colore come un tubetto di dinamite», anche per Cavaglieri il colore deve brillare. Come brilla una mina. Ma in lui non cè nessun intento aggressivo, perché il suo è un mondo intimista, anzi intimo: un mondo fatto di interni aristocratici in cui vasi cinesi, tappeti orientali, mobili veneziani istoriati e laccati, arazzi preziosi, signore con le aigrettes e levrieri bianchi si fondono in un unico mosaico sgargiante.
Nato a Rovigo nel 1887, Cavaglieri studia a Venezia, entrando a far parte dellatelier del Laurenti. Nel 1911 compie il primo viaggio a Parigi, e qui conosce limpressionismo e i fauves. Conosce anche Giulietta, che amerà tutta la vita.
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