I conti sbagliati di chi difende il maggioritario

Francesco Damato

Sapevo di non poter contare su molti consensi rimpiangendo il sistema proporzionale e il voto di preferenza di fronte alle transumanze parlamentari, favorite a mio avviso dalla legge elettorale in vigore da undici anni. Essa consente a chi viene eletto in un campo di passare disinvoltamente nell’altro negoziando la ricandidatura alle elezioni successive o in uno dei collegi uninominali della quota maggioritaria considerati sicuri o in una lista della quota proporzionale, bloccata in un ordine voluto non dagli elettori ma dai vertici dei partiti.
Sapevo - ripeto - di non poter contare su molti consensi, vista la buona stampa di cui gode il sistema maggioritario e la cattiva che si sono guadagnati con la caduta della Prima Repubblica il sistema proporzionale e le preferenze, compresa l’unica sopravvissuta al referendum abrogativo del 1991. Ma non immaginavo che il dissenso potesse essere così diffuso anche fra i nostri lettori, molti dei quali pensavo dovessero ancora ricordare le «quaterne» e «cinquine» che nei primi anni di questo giornale indicavamo con Indro Montanelli alla vigilia delle elezioni per favorire i candidati che consideravamo più affidabili. E che spesso non erano quelli meno graditi agli apparati oligarchici dei partiti nelle cui liste si presentavano. Altri tempi, si dirà. È vero. Ma non è detto che fossero tempi di cui vergognarsi o inorridire.
Anziché tornare al proporzionale e al voto di preferenza, molti vorrebbero eliminare anche quel poco di proporzionale che è rimasto nelle elezioni politiche per l’assegnazione del venticinque per cento dei seggi della Camera. Esso viene considerato fonte di confusione perché spingerebbe i partiti di ogni coalizione di governo a privilegiare la propria identità, o i propri egoismi, rispetto all’unità necessaria ad una maggioranza per operare bene e resistere agli attacchi corrosivi dell’opposizione. Della mancata abolizione della quota proporzionale con un referendum svoltosi qualche anno fa, e naufragato nell’astensionismo, si è ancora doluto qualche giorno fa Gianfranco Fini intervenendo al convegno della Fondazione Liberal sul partito unico, o unitario, proposto da Silvio Berlusconi per rafforzare il centrodestra.
Se Fini pensa, come mi è sembrato di capire ascoltandolo, che più ancora del progetto «affascinante ma complesso» del presidente del Consiglio sia utile l’abolizione della quota proporzionale che ancora c’è, si sbaglia di grosso. Egli si è d’altronde contraddetto quando ha ricordato a Berlusconi, presente al suo discorso, che in molti dei collegi uninominali maggioritari «la partita si gioca sui partiti dell’1 per cento», in grado in effetti di far pendere la bilancia da una parte o dall’altra: partiti con i quali sarebbe probabilmente condannato a fare i conti anche quello unico dei moderati proposto con ostinazione da Berlusconi.
Ebbene, questi partiti dell’1 per cento nazionale, o poco più, sopravviverebbero anche all’abolizione della quota proporzionale, che già oggi non li tutela perché all’assegnazione dei seggi parlamentari non si può accedere sotto la soglia del 4 per cento dei voti. Senza la quota proporzionale i partiti dell’1 per cento sarebbero al riparo da una verifica della loro effettiva consistenza e ricatterebbero i maggiori in un numero superiore di collegi uninominali.

Alle cui candidature essi concorrerebbero sempre di più, in una coalizione o nell’altra, come spericolati giocatori di poker.

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