I Costa, nei geni di famiglia la guerra agli sprechi

Due generazioni a caccia delle spese inutili dello Stato: Raffaele ha recentemente tagliato le auto blu della Provincia di Cuneo, Enrico ha smascherato i mercatini nei ministeri

nostro inviato a Mondovì (Cn)
C’è la foto di un vecchio amico, Vincenzo Muccioli, e c’è una terracotta con la scritta meno incoraggiante, almeno per me che sono qui a porre domande: «Signore, benedici chi non mi fa perdere tempo».
Non posso stupirmi: mi trovo nel covo del più grande cacciatore di sprechi italiani, il glorioso Raffaele Costa. Anima da liberale antico, parlamentare con incarichi di governo nella Prima Repubblica, quattro libri sulle sue battaglie contro la burocrazia, ma soprattutto cuneese di Mondovì. Il che, per sua stessa ammissione, significa «avere già in vena il senso del risparmio e del rigore». Difatti, adesso che per motivi di età (ne ha 70) ha lasciato il fronte romano, fa il presidente della Provincia a modo suo. Per dire il metodo: l’intera impalcatura istituzionale si serve di due sole auto blu. Dice che bastano e avanzano. Su questo tasto delle macchine di rappresentanza - la sua più famosa questione di principio - non si è mai spostato di una virgola. Non si sposterà certo adesso. «Anche se devo riconoscere - commenta - che la partita delle auto blu l’ho solo pareggiata: a Roma non sono riuscito a diminurle, mi è soltanto riuscito di non aumentarle più...».
Siamo nell’ufficio che si affaccia sul corso principale di Mondovì. Qui, a cominciare dagli anni ’70, file di cittadini anonimi si sono messi in coda per sollevare questioni e rivendicare diritti. Ogni sabato mattina, Raffaele Costa li ha ascoltati. E qualcosa deve avere pure fatto, se è vero che nel tempo è diventato un mezzo mito nazionale. Riconosciuto e rispettato, come indomito difensore civico, persino dalle opposizioni.
Ora però si sta registrando un fenomeno curioso. È lui stesso, con un mezzo sorriso d’affetto, che lo riconosce: «Me ne sto accorgendo con il passare dei giorni: ormai la gente chiede più di lui che di me...».
Lui è seduto dall’altra parte della scrivania. Si chiama Enrico. Enrico Costa. Neppure 38 anni, figlio d’arte. E non tanto perché sia già parlamentare (con Forza Italia): di queste successioni è piena la storia d’Italia. No, qui c’è qualcosa di molto più singolare: siamo all’arte di famiglia. La caccia agli sprechi tramessa di padre in figlio. Pure lui, Enrico, uguale al leggendario Raffaele: avvocato, membro della commissione Giustizia, ha il pallino della burocrazia perversa e sciatta. Non la regge, ha giurato di combatterla in una guerra senza quartiere. Così, chi pensava che con il ritiro a vita di Provincia dell’anziano Raffaele fosse finita la scocciatura, si vede costretto a rifare i conti: via un Costa, sotto un altro. E si ricomincia da capo.
Ammettiamolo: un figlio che ripercorre l’itinerario del padre solleva inevitabilmente una certa dose di diffidenza. È lecito il sospetto della posa, o della costrizione, peggio ancora della patetica imitazione. Enrico lo sa, ma riesce a vivere con sereno distacco la strana situazione: «Per me questo non è un gioco. Cacciare sprechi e disfunzioni è attività politica, nobile e dignitosa. Del resto, io a sei anni ho cominciato a repirare la politica: mio padre mi portava spesso con lui, ero la mascotte dei liberali. A 20 ero consigliere comunale in un piccolo paese. A 25 a Cuneo. A 30 consigliere regionale del Piemonte. Ora, a 37, parlamentare...». Il padre lo guarda e precisa: «Non è un figlio di papà. Ha respirato lo spirito liberale e l’ha abbracciato. Ha qualcosa che a me è mancata: l’esperienza della piccola amministrazione. Gliela invidio. Lo rende ancora più sensibile alle storture. Credo che farà bene, nel mio ruolo...».
Gli inizi confermano. In estate, ecco un’interrogazione per segnalare un caso molto simpatico: «Il Bacino imbrifero del Varaita, qui vicino, decide nel 2005 di acquistare un gippone per i vigili del fuoco volontari. Ventiseimila euro. Ebbene: 14 mesi dopo, il gippone è ancora fermo in garage. Non si può usare perché dal Ministero non arriva la carta bollata per metterlo in pista».
A seguire. «Un mese fa, in Commissione giustizia ho sollevato il caso di 37 Bmw “di rappresentanza” - e sottolineo di rappresentanza - acquistate dall’Amministrazione penitenziaria. Spesa totale: un milione 700mila euro. Le pare possibile, con lo sfacelo delle nostre carceri?».
È inevitabile, negli uffici della famiglia Cacciasprechi: ci si lascia prendere per mano e ci si inoltra sgomenti nelle follie del nostro sistema Stato. «Guardi però - spiega paterno il maestro Raffaele - che non bisogna farne una politica ad effetto. Mai cadere nella demagogia. Tutti possono sbagliare. Ma c’è una cosa su cui davvero nessuno può chiudere gli occhi: la negligenza. Quando c’è negligenza, sciatteria, malafede, bisogna diventare implacabili».
Costa Jr. conferma con cenni del capo. È fresco di bombardamento mediatico per la scoperta dei mercatini nelle stanze ministeriali, portati alla ribalta pubblica dalle «Iene», che hanno documentato gli acquisti di generi vari durante l’orario d’ufficio. Da pochi mesi in Parlamento, è già oberato di lavoro: durissima, la vita del bounty killer. «Che poi i Costa non sono contro la burocrazia - specifica -: sono contro la burocrazia stupida e spendacciona».
Chiedo: il prossimo colpo? Non c’è bisogno di attendere molto, per la risposta: «Ho chiesto perché mai non si possa sapere come la Presidenza della repubblica spenda i soldi. Per consuetudine costituzionale, si conosce solo il totale. Ma il dettaglio mai. C’è una sorta di pudore istituzionale. Eppure, non sono cifre da ridere: per il 2007, 224 milioni in euro. Non è detto si debbano tagliare. Ma almeno sapere. Dagli uffici del Colle mi rispondono che non si possono sbandierare le spese dei predecessori. Però sono convinto che Napolitano prima o poi romperà la tradizione. In ogni caso, posso assicurarlo: fra qualche mese, se non avremo cenni, io tornerò alla carica...».
Lunga vita alla dinastia Costa. Però c’è un allarme: dopo la seconda generazione, ancora non è in vista la terza. «Non sono sposato - sorride Enrico - ma mi sto attrezzando. Mica posso esaurire l’arte di famiglia. Intanto ci godiamo il piccolino di mia sorella, anche se ovviamente porta un altro cognome. Una cosa è certa: come mio padre ha fatto con me, non imporrò mai niente a mio figlio. Bisogna sentirsele, certe cose...».
Raffaele, patriarca soddisfatto, ascolta questo argomentare come fosse musica per le sue orecchie.

A lui il compito di metterci sopra il sigillo di famiglia: «Quest’arte si impara in fretta. Non ci sono trucchi del mestiere, da tramandare. Serve solo la sensibilità. Non dovrebbero dimenticarlo mai, gli italiani: bisogna riuscire sempre ad indignarsi».

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