Non mi càpita spesso - per la precisione quasi mai - d’essere d’accordo con i senatori diessini Cesare Salvi e Massimo Villone. Ma le loro proposte di legge per l’abbattimento dei costi della politica sarei pronto - per quanto ne ho letto sui quotidiani - a sottoscriverle in toto: testo e motivazioni. Spiegano Salvi e Villone che centodue membri del governo - l’attuale governo, per intenderci - sono uno sbaglio gravissimo, che nel resto d’Europa il numero dei ministri e sottosegretari è al disotto dei cinquanta, e che qui, in casa Prodi, sta il vero impazzimento, non nelle teste degli italiani. La cura dimagrante dovrebbe riguardare anche Montecitorio e Palazzo Madama, non più di 600 tra deputati e senatori contro i mille attuali (la Casa delle libertà aveva in realtà previsto, a scadenza differita, una riduzione del numero dei parlamentari, ma la furia distruttrice del centrosinistra nei confronti d’ogni iniziativa berlusconiana ha azzerato anche questa modesta e comunque utile iniziativa). Riduzione inoltre del numero dei consiglieri regionali, tagli alle faraoniche indennità, eliminazione di enti inutili.
In complesso, secondo i calcoli dei senatori citati e del deputato Valdo Spini, si potrebbe realizzare un risparmio di 4-6 miliardi di euro: che pur non essendo risolutivi per il bilancio statale un aiuto consistente lo darebbero. Ma ancor più che il vantaggio monetario conterebbe l’esempio di autodisciplina offerto al Paese da una classe politica che al Paese stesso indirizza spesso e volentieri moniti di rigore e di sacrificio, ma che predica bene e razzola male.
È apprezzabile il fatto che, nella loro requisitoria contro gli sprechi, Salvi e Villone abbiano preso di mira la maggioranza cui appartengono: soggetta alle imposizioni e ai veti d’una veterosinistra di piazza e di caviale che a starla a sentire - Pecoraro Scanio docet - è in grado di risistemare l’orbe terracqueo, ma se gli si dà una drogheria da gestire la fa fallire in un mese. Ho scritto che firmerei, poco badando alla matrice ideologica, i disegni di legge contro le dilapidazioni e le generosità della politica in una Italia a stecchetto. Aggiungo sùbito che ho una certezza: di quelle misure austere non si farà niente. Già s’è visto che qualche timido conato di risparmio è stato prontamente eluso, con sotterfugi e cavilli, da coloro che avrebbero dovuto subirlo.
Gli sperperi della politica e dell’amministrazione sono stati messi in discussione infinite volte - Raffaele Costa ne sa qualcosa - e infinite volte, passata l’onda emotiva d’una breve indignazione, sono sopravvissuti. Non è una questione di destra o di sinistra. È una questione di Palazzo, è il chiudersi a riccio di corporazioni privilegiate che - non si sa in forza di quali meriti, e con quali mezzi - sono riuscite ad affermarsi come le meglio remunerate e le più intoccabili d’Europa. L’accresciuta autonomia delle Regioni - per lo più rette dalla sinistra - è stata dalle stesse lestamente utilizzata non per scopi di bene comune, ma per accrescere il numero e impinguare le buste di assessori e consiglieri. L’idea balzana che i costi superflui e immani della politica debbano essere drasticamente ridotti sarà sepolta da un silenzio bipartisan, e tacitata con accuse di demagogia e di qualunquismo a carico di chi voglia risfoderarla.
Deputati e senatori discuteranno della riforma pensionistica che da molti viene ritenuta necessaria per evitare la bancarotta dei conti previdenziali, e che inciderà sulla vita di milioni d’italiani, ma vorrei tanto che i parlamentari, prima d’occuparsi del rigore cui assoggettare la gente da mille euro o meno al mese, rinunciassero agli scandalosi privilegi pensionistici di cui godono. Se non fosse per i contenuti fiscali il dibattito sulla finanziaria sarebbe divertente, un Hellzapoppin’ quotidiano che avrebbe senz’altro ispirato la comicità di Groucho Marx.
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