I debiti di Radiopop tra «fuoco amico» e leninismo-gotico

I debiti di Radiopop tra «fuoco amico» e leninismo-gotico

A Radio Popolare tutto si aspettavano, tranne che di venire bombardati dal fuoco amico del Fatto Quotidiano. Per la vecchia radio della sinistra milanese, sopravvissuta a tre Papi e a due repubbliche, arrivata in uno dei momenti più critici della sua esistenza, la bordata ad alzo zero arriva l'altro ieri dal quotidiano di Travaglio e Padellaro, che parla di una voragine nei conti da 270 milioni. È una bordata tanto più dolorosa perché parte dal quotidiano amato da tanti ascoltatori di Radiopop; perché è firmata con uno pseudonimo; perché spara cifre iperboliche un po' a casaccio; perché l'indomani la smentita finisce in poche righe. Ma il problema vero è che, in tempi così difficili, dare per moribonda l'emittente rischia di affossarne i tentativi di guarigione.
E sarebbe un peccato, si badi. Non solo per la storia di quella fucina di giornalisti che è stata la radio, spesso assurti a carriere più glamour: da Paola Jacobbi, che oggi intervista le star hollywoodiane per Vanity Fair, a Michele Cucuzza che fino a ieri seduceva le casalinghe del pomeriggio di Raiuno, al Dario Carella che da Bruxelles racconta i fasti della Ue per Rai3; ma anche il Massimo Cirri del sulfureo Caterpillar di Radiorai, o la Gialappa's, o Fabio Poletti della Stampa o il Gad Lerner dell'Infedele, e così via per un elenco che sarebbe interminabile... Nemmeno i leggendari quotidiani del pomeriggio degli anni Sessanta hanno fornito tanta manodopera di qualità all'informazione milanese.
Altri anni, in cui Radio Popolare era una corazzata dietro cui si stagliavano i poteri forti della sinistra milanese: la Fim Cisl di Piergiorgio Tiboni, la minoranza socialista di Michele Achilli, Democrazia proletaria, un patto di sindacato non sempre facile da governare, ma che garantiva una pluralità di voci in cui a farla davvero da padrone era alla fine la redazione. Nel panorama ancora paludato della stampa cittadina negli anni Ottanta, le «dirette» di Pat Trivulzio dai fatti di nera cambiarono un epoca. E Umberto Gay fu l'unico a mandare dal vivo la scena più incredibile vista in un aula di tribunale, quando le due fazioni della banda Epaminonda si presero a revolverate dalle gabbie del bunker di piazza Filangieri.
Nella dissoluzione del suo universo politico di riferimento, Radio Popolare ha faticato a reinventarsi un'identità. Vittima della sua stessa architettura societaria, nata per garantire l'autonomia della redazione, che il direttore Ivan Berni - costretto alle dimissioni appena dopo la nomina - definì con perfezione «gotico-leninista», Radiopop ha finito col rinchiudersi su se stessa, in una sorta di eroismo di nicchia fatto di rock progressivo e di dibattiti interminabili. E di cui è tragicomica testimonianza l'iniziativa varata recentemente per raccogliere fondi: un viaggio in pullman a Sofia «alla ricerca di scampoli del socialismo reale».


Non stiamo per chiudere, dice oggi Radio Popolare per bocca del suo leggendario cronista comunale Michelino Crosti (uno che conosce Palazzo Marino meglio dei cronistoni dei giornaloni): siamo in crisi, come tutti, ma ce la faremo. É una buona notizia, anche per chi non l'ha mai ascoltata e per chi non l'ascolta più.

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