Due lampi di luce accecante, a pochi giorni di distanza, e il mondo non fu più lo stesso. Il 6 agosto del 1945 il b-29 Enola Gay sganciò il suo carico di morte, la bomba all'uranio Little Boy, su Hiroshima. Il 9 agosto alle 11 del mattino, il b-29 Bockscar sganciò la bomba Fat Man, questa volta al plutonio, su Nagasaki.
Fat Man aveva una potenza di 25 kilotoni, quasi doppia rispetto all'ordigno esploso su Hiroshima, che sterminò all'istante tra le 66mila e le 78mila persone. I morti immediati a Nagasaki però furono di meno: tra le 36mila e le 40mila vittime. A salvare in parte la città fu il fatto di essere costruita tra le colline e il fatto che le nuvole resero difficile il bombardamento. Ma era comunque solo e soltanto l'inizio dell'ecatombe. Molti dei superstiti (in Giappone vengono chiamati hibakusha ) hanno dovuto convivere per anni con quello che chiamano il «nemico interno», le malattie da radiazioni. Il rischio di trasmettere malformazioni genetiche ai figli. Tanto che è quasi impossibile ottenere un conto attendibile delle vittime del dopobomba.
Tra questi superstiti segnati per sempre c'è anche la scrittrice Kyoko Hayashi, sinora mai editata in Italia, di cui l'editore Gallucci ora pubblica una raccolta di racconti intitolata proprio Nagasaki (pagg. 232, euro 18, traduzione e nota di Manuela Suriano). La Hayashi, che a Nagasaki è nata nel 1930, ha trascorso gran parte della sua infanzia a Shanghai, dove suo padre lavorava come espatriato. Solo con la progressiva ritirata delle truppe giapponesi è tornata nella sua città d'origine. Nel momento del bombardamento si trovava al lavoro in una fabbrica del quartiere di Urakami (la zona più colpita dall'esplosione), come molti altri studenti reclutati durante l'estate per lo sforzo bellico. Questo vi fa capire quanto di autobiografico vi sia nello stralcio tratto dal racconto I due segni tombali che pubblichiamo in questa pagina. Durante la sua vita di scrittrice Hayashi ha sempre tenuto l'attacco atomico al centro della sua narrazione. Soprattutto dando conto delle difficoltà dei superstiti e delle loro malattie senza nome. Lo vive come un dovere. Forse non tanto verso chi non c'è più, ma verso chi verrà domani.
I dolorosi racconti di Kyoko Hayashi
Quel giorno stranamente il caposezione era assente. Yoko e Wakako chiacchieravano, di fronte ai finestroni lustri. Yoko, con il suo monpe blu a disegni bianchi, si trovava di spalle alla finestra più grande della fabbrica, orgoglio del caposezione, costituita da una singola lastra di vetro dello spessore di tre millimetri. Il vetro assorbiva il sole estivo e illuminava le guance di Wakako. Per lei, molto sensibile alla luce, quel sole era troppo abbagliante. Si riparò allora all'ombra di un pilastro di cemento lì accanto, e proprio in quell'istante qualcosa di bianco fluttuò in un angolo della finestra.
«Una nuvola?» chiese Wakako. «Sembra un paracadute» disse un giovane operaio che trasportava un barattolo di grasso facendo un rumore pesante con i suoi geta di cedro.
L'orologio della fabbrica, che a ogni ora ritardava esattamente di un minuto, segnava le 11:00. Il caporeparto con un solo braccio, persona precisa, lo rimetteva ogni giorno appena arrivava a lavoro. Quel giorno l'orologio era rimasto indietro.
«Manca poco alla pausa pranzo. Oggi ho riso e frittata».
A Yoko piaceva la frittata dolce. Impaziente di aspettare mezzogiorno, prese il suo portavivande poggiato sul banco e sorrise annusando il profumo che emanava. Sovrapponendosi al candore dei suoi denti, qualcosa di bianco percorse in diagonale la finestra e oscillò freneticamente, con il sole come asse. In quell'istante una luce viola rivestì l'intera finestra. Fino ad allora Wakako aveva pensato che la luce viaggiasse formando aghi appuntiti simili a quelli dei supporti per l'ikebana, per poi scomparire immediatamente. Quando aveva cinque anni, un fulmine era caduto sulla montagna di mandarini disegnando una traiettoria di luce a zigzag uguale a quella dei manga, così come i fulmini che aveva visto sfavillare sul mare. Ma la luce fuori dalla finestra era diversa. Si allargava nel vasto cielo così lentamente e quasi ostinatamente, tanto che gli occhi potevano seguire il suo propagarsi. Faceva percepire la sua massa sostanziale, era del tutto diversa da quel qualcosa senza spessore con cui Wakako l'aveva identificata finora.
Il vetro della finestra andò in frantumi, e contemporaneamente la luce da fuori proruppe all'interno investendo le spalle e la schiena di Yoko, che abbassò la testa. Mentre i frammenti di vetro venivano scagliati come freccette da una cerbottana, verso di essi si sollevavano pezzi di metallo a forma di spirale sparsi sul pavimento. Una fenditura nera si aprì dal soffitto lungo un pilastro, che crollò a terra.
Wakako afferrò con precisione quello che accadde in quel momento. Tutto era piatto, come immagini che scorrevano veloci sulla superficie dei suoi bulbi oculari. Ma era la realtà che stava assalendo Wakako, o era qualcosa che avveniva in sogno? Dentro una vaghezza impossibile da decifrare, sentiva il rumore leggero e stridente del vetro che si conficcava nella schiena di Yoko e le tagliava la pelle.
Assomigliava al rumore della tempesta di carta durante i raduni sportivi a scuola, sotto il sole autunnale, quando la grande palla di carta veniva rotta e i piccoli fogli liberati danzavano producendo un rumore secco.
«Ancora ultima? Wakako, sei una frana!» Yoko, che vinceva sempre il fiocco rosso del primo posto, la rimproverava di essere troppo lenta nella gara di corsa. Quella stessa faccia orgogliosa affiorò in quel momento nella pioggia di frammenti di vetro, stranamente contorta, e gridò aiuto. Guardando la bocca di Yoko, scura come una caverna, Wakako le fece eco e gridò esattamente con lo stesso tono di voce. Wakako era rimasta intrappolata sotto le macerie della fabbrica. Da qualche parte era scoppiato un incendio e vedeva le fiamme ai suoi piedi. «Aiuto! Aiutatemi!». Un uomo sgusciò da sotto le macerie afferrandosi a qualunque pezzo di cemento gli capitasse tra le mani. C'era un piccolo spazio davanti alle mani dell'uomo. Da lì usciva del fumo, smuovendo l'aria intorno a Wakako. Era l'unica via di fuga. Wakako afferrò la gamba dell'uomo con tutte le sue forze e lo implorò di aiutarla.
Lo stinco peloso dell'uomo, che calzava i geta, la colpì sulle spalle. Wakako non mollò la presa. L'uomo allora si tolse uno dei robusti geta fatti a mano e colpì ancora le spalle esili di Wakako con la parte dentellata. Le ossa scricchiolarono.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.