I dubbi del governatore Illy spaventano il centrosinistra

I dubbi del governatore Illy spaventano il centrosinistra

Guido Mattioni

nostro inviato a Trieste

Se la sai ascoltare, la bora ha una sua voce. Basta tendere l’orecchio. Così i refoli che scendono dal Carso triestino fino a spazzare piazza Unità, per poi proseguire oltre, verso il Friuli, increspando l’azzurro dell’Isonzo, spettinando i vigneti del Collio e infine scuotendo l’angelo segnavento del castello di Udine, sembrano concordi nel sussurrare: «Più che un'elezione, è un referendum». Un «Sì» o un «No» a Riccardo Illy (primo presidente di una Regione ad aver imbarcato in maggioranza Rifondazione comunista) e al suo progetto politico. Ma anche a una gestione familistica fatta di promozioni, consulenze, incarichi e lauti aumenti ai soliti amici. Come l’ex armatore Silvio Cosulich, solo per fare un nome: uno dei più ricchi proprietari immobiliari triestini, nominato da Illy presidente proprio dell’ente per la cartolarizzazione dei beni pubblici. E pensar male, si sa, non è peccato...
La bora racconta poi di una discesa in campo come sostegno di marketing subliminale all’aromatico marchio di casa. Accadesse a destra, sarebbe «conflitto d’interessi». Ma verificandosi a sinistra, è solo «sinergia». Ma sono refoli dispettosi, si sa. Ti parlano anche di un ristretto e griffatissimo mondo radical chic che si ciba di ginseng e si beve le panzane di sedicenti guru della meditazione. Quasi una riedizione del newyorkese Falò delle vanità, ma alla triestina, in saor, proprio come qui cucinano le sarde. E ti descrivono un salotto allargato dove ciò che conta è far parte del clan. Perché «o sei con loro o sei niente».
Ecco spiegato perché è un «referendum». Del resto, il Friuli-Venezia Giulia è da sempre regione in bilico. Geopoliticamente, posta com’è su un confine tormentato e mutevole. Ma anche culturalmente, per la convivenza di due anime: quella cosmopolita e mercantile di Trieste; e l’altra - friulana - che è terragna, laboriosa, ma spesso troppo taciturna. Ovvio, quindi, che il bilico sia anche elettorale. Specie qui, in una tornata che vede la lista della Cdl per la Camera, capitanata da Silvio Berlusconi, dalla campionessa olimpionica Manuela Di Centa e dall’ex presidente della Regione Renzo Tondo, sfidare all’ultimo voto la compagine ulivista guidata da Rosy Bindi. Mentre al Senato gli azzurri triestini Roberto Antonione (sottosegretario agli Esteri) e Giulio Camber se la vedono con un centrosinistra che schiera in verità un solo nome di spicco: Willer Bordon.
Ma per capire la posta davvero in gioco, è dallo sdoganamento del Prc che si deve partire. Mossa tattica, scevra da pulsioni ideologiche o tantomeno ideali, quella di Illy. Solo freddo calcolo politico. Qualcosa che in fondo gli assomiglia molto. Calcolo proseguito con la decisione di concentrare in un election day, oltre alle politiche, anche le provinciali di Udine, Trieste e Gorizia e le comunali di Trieste e Pordenone. Scelta consentita dallo Statuto speciale, ma motivata dall’idea di sfruttare il trascinamento delle amministrative, tradizionalmente più favorevoli al centrosinistra. Effetto che Illy avrebbe voluto poi amplificare, schierando anche alle politiche liste civiche di suoi sodali. Intenzione castrata però da Prodi e dagli altri leader.

Un «no» che l’industriale del caffè ha accolto come è solito accogliere qualsivoglia critica, anche la più lieve. Con una reazione stizzita. Uterina. Al punto che, furente, sarebbe stato sentito dire: «Al Senato voterò senz’altro il candidato dell'Ulivo, alla Camera non so». Ci vorrebbe un amico...

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