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I due Giuseppe: se un Pep beffa Einstein

La supersfida tra Real Madrid e Barcellona si è giocata anche sulle panchine. Una stretta di mano, veloce, da protocollo. Un fotogramma, un flash. Poi i venti metri che dividono le due panchine sono tornati a essere mille e cento chilometri, la distanza che separa il vate di Setubal dall'hombre de Santpedor, un portoghese e un catalano nello stadio della capitale di Spagna

I due Giuseppe: se un Pep beffa Einstein


Una stretta di mano, veloce, da protocollo. Un fotogramma, un flash, non altro, basta. Prima del tutto. Poi i venti metri che dividono le due panchine sono tornati a essere mille e cento chilometri, la distanza che separa il vate di Setubal dall'hombre de Santpedor, un portoghese e un catalano nello stadio della capitale di Spagna, el clasico è scivolato via con Josè e Pep vicini e lontanissimi, diversi, opposti, nemici dopo essere stati sodali, per quattro stagioni, a Barcellona, uno vice allenatore di Van Gaal, l'altro con il numero quattro sulla maglietta a far finta di ascoltare i due docenti. Roba di un tempo antico, quasi una memoria fastidiosa.

Guardiola è rimasto vertical come la sua cravatta strettissima, le mani in tasca e la barba incolta, gli occhi accesi per spiegare cose di campo ai suoi, senza dover parlare nemmeno. Mourinho era come il colore del suo abito, grigio e buio come la camicia di seta scura ma la notte vera è arrivata per lui dopo un'ora di gioco, quando l'arbitro tedesco ha spedito fuori il solito Pepe. E allora Josè è tornato Mourinho, si è ricordato di essere uno special one, è scattato in piedi, ha offerto la sua faccia disgustata, ha strizzato l'occhio all'assistente di Stark, come a dirgli, avete fatto il solito buon lavoro, per gli altri, per il Barcellona ovviamente, ha aggiunto qualche parola di scherno, il tedesco ha inteso, ha tradotto, ha riferito all'arbitro, e così è finita la commedia di Giuseppe da Setubal, del letterato che aveva recitato, in conferenza stampa, un aforisma di Einstein, di Albert Einstein, uno che non era stupido, proprio così aveva detto ai giornalisti sorpresi di tanta cultura e di tanta memoria. Ma Josè si è dimenticato di riportare un'altra frase dell'illustre compatriota dell'arbitro Stark: «Due cose sono infinite: l'universo e la stupidità umana, ma riguardo l'universo ho ancora dubbi». Josè ha evitato il ricordo, qualcuno potrebbe rinfrescare la sua memoria vivace.

La partita tosta nelle parole, un po' meno, tanto meno, nell'azione, già torbida, arruffata, nervosa, ha perso il suo gallo cedrone, l'attore, forse il protagonista. L'uscita di Mourinho, che da repertorio ha voluto restare nel teatro, accomodandosi tra il pubblico, esibendo la sua faccia da schiaffi, per ribadire di essere lui il mattatore, lui la vittima, lui il martire, lui il toro da incornare, l'uscita di Mou, dicevo, ha quasi messo fine alla commedia ed è stata il segnale che qualcosa sarebbe accaduto. Come è accaduto. Pep non ha cambiato di un respiro la propria recita, le mani, entrambe, nelle tasche dei pantaloni per liberarle appena, qualche secondo, in segno di gioia rabbiosa al momento del colpo di Messi che va a gonfiare la rete di Casillas. E poi Messi ha concesso il bis, come sanno fare i campioni veri. E il Real cercava una voce del capocomico ma non la trovava. Mou non sorrideva più, la camicia scura, di seta, aveva lo stesso colore del viso del vate. A Barcellona non potrà sedersi in panchina, non potrà dire nulla dell'arbitro, non strizzerà l'occhio al guardalinee.

L'universo non è infinito, come diceva Albert, Albert Einstein.

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