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I FRATELLI FERRARA L’inversione delle parti

Ero curioso di capire cosa vi fosse dietro quel «Caro mio, è tutto finito, finito» che Maurizio Ferrara, antico dirigente comunista, volle in tarda età comunicare a suo fratello Giovanni, intellettuale liberaldemocratico di lungo corso. Conoscevo il lato pubblico dei Ferrara: da adolescente, a metà degli anni ’50, avevo incontrato Giovanni direttore di Critica liberale, la rivista dei giovani liberali e poi esponente dei radicali di Pannunzio e Carandini; con suo fratello Maurizio, autorevole dirigente del Pci romano, avevo avuto a che fare nei primi anni ’60 quando noi del gruppo pannelliano avevamo preso in mano il Partito radicale; inoltre il padre Mario Ferrara, antifascista liberale, mi aveva educato con i lucidi articoli de il Mondo; e, più tardi, all’inizio dell’80, avevo familiarizzato con Giuliano, figlio di Maurizio, quando da ex-comunista era approdato nei circoli craxiani.
Ma Il fratello comunista di Giovanni Ferrara è qualcosa di diverso da una saga familiare centrata sul rapporto appassionato tra due fratelli impegnati in campi politici avversi. Sullo sfondo dell’antifascismo e del suo valore perdurante, il libro illumina lo scontro epocale tra liberalismo e comunismo, come vissuto da un padre e due figli le cui vite «furono coinvolte e persino travolte in tali scelte ideali, morali e politiche». Giovanni, storico dell’antichità classe 1928, si dedicò con passione alla democrazia laica prima con liberali e radicali e poi con i repubblicani di La Malfa seguendo le orme del padre Mario, avvocato liberale amendoliano che difese di fronte al tribunale speciale gli antifascisti d’ogni colore. Suo fratello Maurizio, giornalista classe 1921, entrò nel Pci clandestino e percorse, se pure con ironia romana o romanesca, l’intero cursus ortodosso dello stalinismo e del togliattismo fino ai ripensamenti degli anni ’90.
Ma, oltre le belle storie di belle persone, quel che più intriga in questa piccola-grande vicenda familiare-nazionale è la quasi inversione delle parti in età avanzata. Maurizio, senza pentirsi, riflettendo su se stesso confessa il fallimento del comunismo: «È stato tutto inutile. Non ha significato niente, non c’era niente che valesse la fatica... tutta la vita... Una fatica inutile». E giunge a simpatizzare per il socialismo anticomunista craxiano e il liberalismo, lui che aveva giudicato «Salvemini un fiero anticomunista reduce dall’America» e «Croce il legislatore del blocco agrario-industriale». Giovanni, che era sempre stato un rigoroso anticomunista democratico, rassicura il fratello sul senso della sua vita: «Dammi retta, non è per niente vero che di te e dei tuoi compagni non resta nulla: resta un monte di disastri, certo, ma anche - e soprattutto - una gran parte positiva della storia italiana della nostra età»; e conclude: «la vicenda di Maurizio è sempre stata un risvolto decisivo della mia. E così avvenne alla fine che lui, per quarant’anni alla mia sinistra, si trovò alla mia destra».
Nel nostro tempo confuso in cui i post-comunisti e i post-fascisti dichiarano di essere sempre stati liberali, in cui gli ossequiosi alle gerarchie ecclesiastiche, cioè i clericali, pretendono di spiegare che cos’è la vera laicità, in cui i reazionari si spacciano per illuminati e i progressisti sono più reazionari dei conservatori, la lettura de Il fratello comunista è una boccata d’aria fresca.

Perché, sulla scorta di esistenze moralmente e intellettualmente integre, si mettono a fuoco, senza dottrinali verità e con molti laici dubbi, le luci e le ombre della grande storia del nostro tempo dominata dallo scontro tra liberalismo e comunismo.
m.teodori@mclink.it

Giovanni Ferrara, Il fratello comunista (Garzanti, pagg. 161, euro 16).

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