I gay? Altro che discriminati, sono una lobby potente

Caro Feltri, non so se debbo preoccuparmi, ma sono di nuovo d’accordo con te, in riferimento a quanto scrivesti sull’omosessualità come pensiero e come azione. Consentimi di aggiungere qualcosa, cominciando con un po’ di storia dell’antica Roma, per illustrare quanto sia lungi da me (e da te) l’intolleranza.
Giulio Cesare era marito di tutte le mogli, nonché moglie di tutti i mariti: Gallias Caesar subegit, Nicomedes Caesarem. Nerone contrasse matrimonio con un efebo, indossando il velo della sposina. Lo stesso Giove era descritto come bisessuale. Orazio si rifugiava nella sua villa sotto il monte Soratte (Vides ut alta stet nive candidum/Soracte...), per montare fanciulle ed efebi, ma soprattutto per sfuggire alle incessanti avances di Ottaviano. Nei bagni pubblici – una delle glorie della straordinaria ed iperigienista civiltà romana – l’esposizione di un’onesta virilità fuori misura garantiva una veloce promozione sociale. Il calendario romano, oltre a fissare la festa delle prostitute, il 26 aprile, festeggiava i maschietti come Vendola, qui muliebria patitur, il 25 aprile.
Roma, del resto, fu la capitale mondiale di coloro, qui cum masculis infandam libidinem exercere audent. In età arcaica, la morale comune accettava il quirite sodomizzatore e biasimava soltanto le checche, allora definite molles, cinaedi, pathici. Noi, eredi di quel passato, non giudichiamo e non condanniamo, tuttavia, non ci facciamo intimare da nessuno «Gay ai vinti!».
Grazie a Dina Nerozzi – vedi, fra i tanti lavori politicamente scorretti, il suo Dallo scimpanzé al bonobo, Rubbettino 2008 – ho appreso che il famoso orgoglio gay fa parte di un progetto politico messo a punto dai nuovi Marx-Engels antisistema.
Nel febbraio 1988, a Warrenton (Virginia), nel corso della prima «conferenza di Guerra» di 175 attivisti rappresentanti altrettanti omoclub sparsi negli States, venne delineata la penetrazione mondiale, uscendo dal cul de sac dello spontaneismo utopico, per passare all’omosexualismo dialettico, cioè alla teoria scientifica della conquista dell’immaginario collettivo, dei mass media; infine, del potere.
La presa del palazzo d’Inverno attraverso la manipolazione mediatica è genialmente e profeticamente descritta dai testi di Marshall Kirk e Hunter Madsen, i Marx-Engels, appunto, del movimento omosessuale, i quali lanciarono la campagna tuttora in corso, finalizzata a far passare per magnifiche sorti e progressive l’omosessualità e la transessualità, in nome, ovviamente, dell’ennesimo avvento dell’ «homo novus».
Kirk e Madsen, centristi del movimento, ebbero la meglio sugli estremisti, come Swift, terroristi della sodomia violenta nelle scuole, impartendo le seguenti indicazioni di tipo, per così dire, gradualistico:
1) Inondare la società di messaggi omosessuali per «desensibilizzare» la società.
2) Ai soggetti che rifiutano l’omosessualità per motivi religiosi, occorre mostrare come l’odio e la discriminazione non siano «cristiani».
3) Infondere nella popolazione dei sentimenti positivi nei confronti degli omosessuali e negativi nei confronti dei «bigotti antigay», paragonandoli, ad esempio, ai nazisti.
4) Bisogna presentare l’omosessualità come innata.
5) I gay devono essere sentiti come «pilastri» della società. Basta citare personaggi storici gay, vedi Leonardo da Vinci.
5) Bisogna rendere «normale» l’omosessualità, richiedendo matrimoni e adozioni gay; così, diamo un’immagine rassicurante.
Anche il termine «omofobìa», egregio Vittorio, proviene da là.
Il fatto abnorme è che quasi l’intera classe politica italiana e il mondo dell’informazione l’abbiano fatto acriticamente proprio, senza accorgersi che, etimologicamente, significa esattamente il contrario di ciò che si vorrebbe intendere.
Vuol dire, infatti, «paura del proprio simile» e non del diverso. Si tratta della stessa ignoranza e del medesimo provincialismo, che hanno fatto accettare il termine «gay», quando in italiano vi sono decine di definizioni per nulla offensive e, anzi, spesso, delicate, spiritose e piacevoli.


Caro Vittorio, c’è di peggio: poiché «fobìa» è termine medico che indica disturbi mentali, talora, assai gravi e con sintomatologia conclamata, si ha, perciò, l’esito illiberale, poliziesco e razzistico di poter dare dello psicotico e del malato a quanti si limitano ad opinare che «gay» possa non essere il massimo della vita o a quanti, facendo gli scongiuri, si augurano di avere figli o maschi o femmine.
Insomma, da una parola composta male e insensata al manicomio criminale brezneviano il passo può essere breve.

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