Giudicando che il termine «gay» suona offensivo anche se rivolto a chi è dichiaratamente e orgogliosamente gay, la Corte di Cassazione ha combinato un bel pasticcio. Naturalmente qui non si mette in discussione la bontà della sentenza: essa rispecchia quel sentire comune politicamente corretto che ha orrore delle parole che definiscono una qualsiasi minoranza etnica, sociale o culturale. La cultura dell'eufemismo, insomma, è sbarcata anche nei tribunali e non resta che prenderne atto.
Il pasticciò è che qualsiasi eufemismo di «gay» risulta essere un tacon peggiore del buso, risulta essere, cioè, più irridente, più offensivo e molto più politicamente scorretto. Con la censura di «gay» non restano altre espressioni per indicare un omosessuale, essendo lo stesso termine omosessuale più e più volte finito nella lista nera. Bisognerà inventarsi qualcosa di nuovo.
Bisognerà fare come Vittorio Sgarbi il quale, tartassato da querele per diffamazione a causa dei ripetuti «asino», «citrullo» e peggio ancora rivolti all'interlocutore o interlocutrice con i quali dissentiva, decise di adottare, quale unico improperio del suo eppur ricchissimo ed elegante vocabolario, «capra». Animale non compreso fra quelli (asino, appunto, maiale, sorcio, vipera, stercorario eccetera) che risultano, se riferiti all'uomo (e alle donne, va da sé), ingiuriosi. E fino a oggi, domani si vedrà, dar della capra a un asino non costituisce reato.
L'altro pasticcio, perché sono due, la Cassazione l'ha combinato proprio ai danni dei gay, dei quali, tuttavia, intendeva difenderne l'onorabilità. Pasticcio subito colto da Aurelio Mancuso: «La cultura di questo Paese continua a essere arretrata. L'appellativo gay non può essere un'offesa. È una condizione ormai considerata normale nella società. Il termine gay significa proprio persona felice di essere finalmente quello che è», ha sconsolatamente osservato lo storico presidente dell'Arcigay.
Questo precisamente il punto: se io ritengo che dare del gay a un gay sia offensivo, significa che ritengo la gayezza, chiamiamola così, una condizione anormale, non canonica: tale da risultare, appunto, offensiva agli occhi dei più. I quali non hanno il diritto di irriderla o peggio di spregiarla, ma che tuttavia e comunque la si giri, tale resta. Va detto che il querelante ci mise del suo denunciando il collega (entrambi sono vigili urbani di Ancona) che gli aveva dato del gay. Il primo dunque a non sentirsi, a non reputarsi diciamo così socialmente legittimato è lui.
Se per rimanere nell'àmbito delle minoranze da proteggere io dò del daltonico a un daltonico, questi non si riterrebbe offeso. L'offesa, infatti, non può far leva che sui dubbi dell'offeso circa l'assoluta conformità o incolpevolezza del suo stato. D'altronde, mutatis mutandis chi si sentirebbe ferito nel sentirsi dare dell'eterosessuale?
Un'ultima osservazione: fermo restando il nostro più alto rispetto per il lavoro svolto dalla Corte di Cassazione, non è che stiamo esagerando? Da un po' di tempo la Giustizia s'abbatte come una mannaia sui comportamenti umani per dar loro quella che si dice una regolata. E così, se chiamo per due volte al telefono la collega non foss'altro che per chiederle come va, ecco che vengo accusato di stalking, orrenda parola che sta per persecuzione. Se poi la collega sollecita i fattorino a darsi una mossa, è costei che rischia l'accusa di mobbing.
L'elenco delle espressioni anche familiari, l'elenco delle parole e dei giudizi che possono portarti dritto davanti al giudice è ormai lungo da qui a lì. La volgarità, quella va bene, ma è bandita - a norma di legge - dal vivere civile anche l'impertinenza che un certo sale alla vita pur dava.
Si fa un gran parlare di dialogo e di confronto, di condividere questo e quello, di aprirsi e mettersi in gioco e poi ci si obbliga alla taciturnità, all'isolamento, ci si condanna al terrore che una pacca sulle spalle sia presa e condannata per molestia sessuale? C'è qualcosa che non funziona.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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