I mille segreti della Valpolcevera tra coralli miracolosi e pasta «tria»

Nel volume di Enrica Marcenaro lavoro, devozione, gastronomia e credenze che hanno fatto la storia della vallata

I mille segreti della Valpolcevera tra coralli miracolosi e pasta «tria»

Dici Valpolcevera e pensi: so già tutto. Invece no. C’è una Valpolcevera segreta, che s’insinua tra le piazze di paese e va oltre gli oratori, le case. Una Valpolcevera che parla una propria lingua e canta le sue canzoni. Solo sue. È la Valpolcevera raccontata da Enrica Marcenaro, autrice di un volume edito dal Comune di Campomorone. È una ricerca, quella della Marcenaro, che dura da tutta la vita, come lei stessa spiega nella prefazione del volume. Che sfata un mito: Genova non è stata resa grande soltanto dal popolo di naviganti e armatori, che hanno solcato i mari commerciando grandi ricchezze, ma anche da da instancabili viaggiatori che magari anche a dorso di mulo, in carovane composte da decine e decine di animali da soma, sfidavano le montagne infestate dai banditi, dal freddo e qualche volta dalla guerra. La fortuna di Genova è stata costruita pietra su pietra come i muretti a secco delle fasce terrazzate anche nell’entroterra. «E la Valpolcevera - dice l’autrice - è stata senza dubbio un’avanguardia dell’economia genovese». Uno dei mestieri più antichi del polceverasco fu senz’altro il mulattiere: basti pensare che anche gli imperatori viaggiavano a dorso di mulo. L’aneddoto riguarda Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero e re di Spagna che, nel 1530, giunse a Genova con tutta la sua corte. Una volta in città, il suo seguito si accorse che portantine, cavalli con i baldacchini e gualdrappe non sarebbero stati in grado di passare attraverso gli stretti vicoli: così Genova donò al grande imperatore un mulo sul dorso del quale Carlo V raggiunse prima la cattedrale e poi Palazzo Ducale, dove trascorse i suoi 44 giorni di soggiorno.
Raggiungere Genova dal mare non era comunque diffice, ma arrivare dalle spalle era più complicato e per questo i mulattieri furono una categoria molto ricca per diversi secoli. Il libro della Marcenaro, come si può a questo punto comprendere, non è comunque limitato alla zona valpolceverasca, ma racconta con dovizia di dettagli curiosi, la vita di tutta la città di Genova, che nel XVI secolo contava già 100mila abitanti. E dove, tanto per dire, si mangiava la pasta tria, fatta di «farina bona, bianca», a volte fresca a volte secca (caso quest’ultimo, unico in Italia dei maccaroni) che veniva bollita e poi condita con i sughi, oppure lessata in latte di mandorla, o, ancora, cucinata più leggera cioè cotta a lungo in acqua e insaporita con il formaggio. Solo in Valpolcevera, invece, si potevano gustare i curzetti, considerati dalla medicina troppo ricchi e dunque da mangiare con moderazione, come anche le lazanie e i tagliarini. I valpolceveraschi oltre che mulattieri erano soprattutto impegnati nella filatura, qui i filatoi erano vicini a allevamenti di bachi da seta.
Ancora, in Valpolcevera, si lavoravano i coralli, che la tradizione mitologica indica come il sangue di Medusa decapitata da Perseo: simbolo di ricchezza e fertilità il corallo veniva acquistato grezzo dai genovesi e sgrossato a domicilio da donne polceverasche o bisagnine: nell’Ottocento la ditta Raffaele Costa & C. assoldò 4mila lavoratori, soprattutto donne.
Se possiamo, in questa sede, solo accarezzare la lunga parte del volume dedicata al Santuario Mariano più alto della Liguria, quello della Guardia, perché noto e amato da tutti i genovesi, va comunque segnalato il capitolo dedicato allo «straordinario del quotidiano», nei 231 ex voto. Tavolette, dipinti su carta e pietre, e centinaia di fotografie: si sa che già quando il santuario non esisteva ancora, appesi alle pareti esterne delle prima cappella c’erano centinaia di tavolette votive. Con il tempo le famiglie che ottenevano una grazia cominciarono a commissionare immagini che molto raccontavano anche dello status della casa, degli arredi e dei personaggi della famiglia, descritti con tecniche molto vicine al ritratto.
Dalla devozione alla socializzazione del popolo all’interno delle confraternite il passo è breve. E la Valpolcevera è costellata da oratori di confraternite ancora attive, che all’inizio furono anche in competizione con le parrocchie per «la specifica ritualità devozionale e la tenace difesa delle loro autonomie». Il patrimonio costituito dai paramenti e dalle insegne processionali è molto ricco e ben conservato. Inoltre grazie agli studi dell’inglese Edward Neill, risalenti al 1967, è stata salvata l’ultima testimonianza raccolta dal vivo di una «Cantegora» genovese, un tipo di canto eseguito da due diversi cori (i cantori si riposavano a turno per avere il tempo di bere) registrata proprio in Valpolcevera, dove veniva eseguita in maniera anche profana, tipo serenata, a Fegino e a Murta.

La parte finale del volume è dedicata alla produzione artistica della vallata e alle opere ancora oggi conservate in varie parti della città. Il volume (175 pagine, con diverse tavole a colori) si può acquistare al costo di 10 euro presso il Comune di Campomorone.

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