I nuovi barbari fonderanno un nuovo Impero

Chi sono i barbari? È successo tutto abbastanza in fretta. La gente ha cominciato a disertare le cattedrali della vecchia civiltà, la piazza non era più popolo, rivolta, anfiteatro della politica, ma shopping, negozi, passaggi. E la plebe delle borgate, dell’hinterland, delle periferie che migrava in massa al centro il sabato sera. Non c’erano più muri fisici o ideologici, né fedi, utopie, palingenesi a sorreggere le mura di cinta costruite dai filosofi della modernità. C’era solo un trillo di voci, che poi con gli anni sono milioni e milioni di squilli di telefonini, di connessioni sempre più veloci, di Yahoo! e poi di Google, di messaggini e posta elettronica, di messanger, di My Space, di You Tube e di Skype. Tutta una ragnatela di «io» che cercava altri «io», e chattava, surfava o si immergeva nelle mille parole di un’enciclopedia universale, dove i sogni a fari spenti di Borges si moltiplicavano, irrorati da un flusso di notizie migranti. Una biblioteca di volumi e fogli sparsi grande come il più grande megastore elevato a tutti i megastore presenti sulla Terra, qualcosa di simile al più apocalittico dei numeri esponenziali, quel sette volte sette caro alle visioni dell’apostolo Giovanni, che si riversava nell’iperspazio dei megabit.
È da lì, si pensa, che vengano i barbari. Non è facile per noi che viviamo ora, in questi anni, definire con la lucidità degli storici le frontiere di queste nuove genti. Quello che si può dire è che i barbari non appartengono al Novecento, molti ci sono nati, ma non ricordano nulla, altri si portano dietro una vaga nostalgia, come qualcosa di indefinito, quasi tutti alla fine l’hanno ripudiato. Si sono guardati dietro e hanno visto le macerie di un mondo presuntuoso, che pretendeva di dare un fine alla storia. Hanno sentito parlare dei fuochi fatui del ’68 e sono andati a ritroso, prendendo nota delle promesse del comunismo o dell’estetica nazionalsocialista. Hanno visto l’America di Kennedy o di Martin Luther King, hanno guardato i poster di Che Guevara alle pareti nelle stanze di un’eterna adolescenza. Sono nati nella culla del welfare state e poi si sono ritrovati a gattonare sul pavimento, al buio, e con la paura del domani. E hanno intuito che le luci e i radar di quella civiltà erano inutili. Avevano bisogno di una nuova mappa. Ma nessun vecchio professore, maestro del pensiero, accademico, pifferaio, cantastorie e rigattiere era in grado di disegnarla. Era tutta gente che spacciava frammenti di passato per architravi di una inespugnabile visione del mondo.
I barbari hanno cominciato a occupare le casematte più periferiche della vecchia civiltà. Molti di loro non sapevano nulla di Omero, ma hanno imparato gli dèi e gli eroi della Grecia dai cartoni animati. E da lì, dalle zone più lontane dell’arte e del romanzo, dai videogame e dai fumetti, dalla narrazione orale dell’hip hop, dai polpettoni mercificati di Hollywood e dai b-movie coreani, gli antichi, sono tornati a parlare ai post-moderni. Da film come 300, con i colori inverosimili del fumetto americano, l’etica degli eroi spartani, l’antiretorica delle Termopili, politicamente scorretta, indigesta per i sacerdoti dell’ultimo Novecento, ha trovato una lingua in grado di parlare ai barbari. Da fumetti come Dampyr si intuisce la lotta fra umano e post umano.

Ciò che ancora manca ai barbari è la capacità di trasformare la massa di informazioni in narrazione. Quando i barbari troveranno un modo per raccontare storie, i sacerdoti del Novecento verranno definitivamente sepolti.

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