Il lager di Spac, un centinaio di chilometri da Tirana, era uno dei luoghi più cupi di quella prigione a cielo aperto che era l'Albania. Oggi il raro visitatore si aggira spaesato fra quelle celle colme di dolore e di abbandono, poi, all'improvviso, ecco fra tanto squallore un murale fresco e sorprendente: alla base la scritta Fear, paura, subito sopra l'aquila bicipite, segno dell'identità nazionale, è ingabbiata dal pensiero sinistro di Enver Hoxha, il dittatore di quello sciagurato esperimento pararivoluzionario. La testa del tiranno domina il graffito che mescola passato e presente, suggestioni e ossessioni, l'epoca oscura del socialismo e la stagione attuale carica di ansie e speranze.
Il pennello gioca con i fantasmi del Dopoguerra. Falce, martello e sogni infranti. Giovanni Vitali, giovane artista lombardo, ha compiuto un viaggio singolarissimo in otto tappe in altrettante capitali europee, un tempo province dell'impero sovietico.
Nessuna demonizzazione e nemmeno un briciolo di nostalgia, come pure va di moda oggi fra le popolazioni che sono sprofondate nella povertà più affilata e nell'insicurezza più traballante. Vitali si muove nello spazio, a Est, e nel tempo, riafferrando i bordi della Cortina di ferro, ma senza rimanerne schiacciato.
Si va avanti e indietro, con i colori in acrilico, con le foto e con le parole, insomma lungo molti sentieri paralleli, sempre attenti alle sorprese, perché quell'epoca almeno a queste latitudini è finita per sempre, ma non è morta la macchina dell'ideologia che ha generato quegli esperimenti di ingegneria sociale.
Otto murales, dunque, realizzati in studio a Milano e poi collocati in altrettanti punti infiammati, otto ferite aperte, di quell'universo. Otto opere e un volume, Infedeli alla linea, appena pubblicato da SilvanaEditoriale, denso di spunti per navigare senza affondare nella corrente della storia. Vitali parte dall'Albania, forse la terra più devastata di quell'Europa orientale cosi diversa fino al 1989. Ed entra fra le celle di Spac offrendoci, in quella cornice cosi martoriata, il volto spettrale di Hoxha. Potrebbe sembrare una chiusura dei conti ma non è cosi; l'autore riporta in uno dei testi a corredo una frase per niente rassicurante di Madre Teresa che vale come bussola per tutto il lavoro: «I peggiori tiranni non sono Hitler, Stalin, Milosevic. Il nemico più terribile dell'essere umano è l'odio che si annida nel suo cuore».
Nessuno può osservare quella tragedia come si osserva un paesaggio dal balcone. E non solo per la pietà che ispirano i drammi infiniti che si sono susseguiti sotto i regimi di Tito, Hoxha, Ceausescu e via elencando. No, è che le capriole della storia e dell'animo possono far tornare quel che sembrava sepolto per sempre. Non siamo al riparo da nuovi guasti e orrori.
Il pennello e la macchina fotografica di Vitali ce lo ricordano. E però questo pellegrinaggio senza precedenti ci restituisce con tutto il suo fascino tenebroso e sbrecciato quel mondo ormai naufragato. Quei condomini immani, senza orizzonte, retaggio di un impero che non c'è più. Le statue di Lenin incombenti. Le piazze disadorne. Le case del popolo con la loro iconografia magniloquente e didascalica. I monumenti grandiosi, ossequienti a un potere che pareva eterno ed è evaporato contro ogni previsione.
Un tour che assomiglia a un ghiotto documentario inedito in bianco e nero, una corsa a ritroso sulla macchina del tempo. Ma poi, a togliere certezze e seminare dubbi, ecco le contaminazioni fra la grande storia e il piccolo pennello arrivato con la sua curiosità e la sua sensibilità da Milano. In Bulgaria l'artista ci porta in vetta a una montagna, a quota 1500 metri, per farci contemplare il Buzludzha Monument, un colosso di cemento armato abbandonato al suo destino nel 1991, dieci anni dopo la sua arrogante edificazione. Doveva essere un centro congressi, in un posto assurdo ma simbolico, perché qui nel 1891 Dimitar Blagoev aveva fondato il Partito Socialdemocratico bulgaro, «germoglio del successivo Partito Comunista». All'ingresso qualcuno ha cercato di celebrare frettolosamente il funerale a quella follia, scrivendo con la vernice parole scacciapaure: «Forget your past», dimentica il tuo passato. Come se si potesse cancellare o peggio rimuovere un trauma lungo almeno due generazioni. Vitali arriva a contemplare quel sacrario saturo di malinconia e non trova più nulla. Una mano ha eliminato la raccomandazione. E allora d'istinto riscrive: «Never forget your past», non dimenticare mai il tuo passato. Perché la torre di Babele può sempre rinascere ed è vecchia come la storia dell'uomo.
Cosi da Tirana a Sofia, da Budapest e Praga, zigzagando fra alveari di edilizia socialista e memorie sbrindellate, a tratti putrefatte, di quel cosmo tramontato con tutta la sua imponente retorica. Come documentano le palestre, i caffè, persino gli immancabili bassorilievi di Lenin che sono sparsi qua e là in quella necropoli contemporanea che è Vogelsang, la città modello, l'avamposto sovietico in quella che era l'altra Germania, la Ddr.
Tre interviste a Annalia Guglielmi, Toni Capuozzo e Luigi Geninazzi aiutano il lettore nel suo percorso.
E Geninazzi, giornalista e scrittore di lungo corso, riporta la fulminate sintesi tracciatagli a suo tempo da Lech Walesa, ex leader di Solidarnosc, per spiegare l'inspiegabile: «Io facevo sempre le solite cose, io mi battevo per il sindacato per difendere gli operai, però ci trovavamo in 10 colleghi... poi nel 1980 ci siamo trovati in 10 milioni, non in 10. Era il fattore Wojtyla».
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