I politici sono diventati burocrati e il popolo ora vorrebbe far da sé

La democrazia è in crisi. I partiti non rispondono alle esigenze degli elettori ma applicano l'agenda di organismi internazionali

I politici sono diventati burocrati e il popolo ora vorrebbe far da sé

Il populismo come «malattia senile della democrazia» è una delle tesi di fondo di La politica senza politica, di Marco Revelli (Einaudi, 234 pagine, 14 euro). Al momento, sembra essere il punto finale di un rapporto accidentato, visto che lo stesso Revelli nota come all'origine del ciclo democratico, quando cioè la ristrettezza del suffragio e le barriere classiste tenevano fuori dal gioco gran parte della cittadinanza, sempre il populismo si identificasse con la sua patologia «infantile». È curioso tuttavia che il desiderio di rappresentatività e di inclusione venga diagnosticato in termini clinici, laddove altrettanto legittimamente lo si potrebbe prescrivere come cura, l'iniezione di forze fresche e entusiaste di esserci all'interno di un corpo ormai stanco e sempre più chiuso in sé stesso. Naturalmente, si può morire per eccesso di medicine così come per il progredire del morbo fino al decesso del paziente, ma non sfuggirà a chi legge il curioso meccanismo mentale per cui se il deficit di democrazia è un male da sanare, il tentativo di sanarlo è patologico e non fisiologico.

Revelli è un politologo di lungo corso passato dal comunismo al post comunismo con pochi rimpianti, ma molte riserve, e però in questo suo saggio sembra soprattutto interessato a delineare un fantasma in negativo, «uno spettro si aggira per il mondo: il populismo», che non a interrogarsi sul modo migliore per farlo scomparire. Certo, lamenta un deficit di rappresentanza e se ne indigna, ma quanto a delineare una via d'uscita il suo saggio non va oltre un generico appello alla «grave emergenza democratica che stiamo vivendo» e a una altrettanto generica domanda di «una vera alternativa politica ai nuovi fascismi».

La politica senza politica è un bel titolo, soprattutto perché richiama al vuoto che questi sottende, il venir meno della res publica, ovvero del bene comune. Secondo Revelli, non siamo comunque di fronte a «una crisi di governabilità», anzi: «I nostri governi democratici prendono fin troppe decisioni» Il fatto è che fra governare e prendere decisioni c'è una sottile, ma basilare differenza: nel primo caso siamo di fronte a un progetto che informa l'azione stessa del governare, ne delinea mezzi e limiti, si costruisce nel tempo, prefigura e raffigura uno sforzo collettivo; nel secondo ha a che fare con la burocratizzazione di un sistema, la messa su carta e poi in pratica di una serie di norme a sé stanti e spesso eterodirette, decisioni non in proprio ma, come dire, per conto terzi. Insegnando Scienza della politica Revelli sa meglio di noi, e infatti lo fa presente, che nel passaggio dal demos, dal popolo, agli oligoi, ai pochi, l'élite politica, insomma, quest'ultimi diventano «sempre meno responsabili verso il primo, sempre più rispondenti nei confronti di istanze altre, collocate fuori dalla sfera a controllo popolare (agenzie internazionali, istituzioni politiche transnazionali, organi di controllo economico, mercati finanziari)». Ciò di cui non sembra tener conto è che queste istanze «altre» non sono solo «fuori dalla sfera a controllo popolare», ma sono anche esterne alla sfera del governare in quanto tale. La crisi democratica non nasce unicamente «dall'impotenza che i governati avvertono nel vedere le proprie istanze ignorate dai propri governanti». Si alimenta altresì della sensazione e/o certezza che i governanti in realtà non governino, siano gli esecutori di decisioni altrui Per molti versi sono giunti alla stessa conclusione di François Mitterrand quando, al termine della sua vita, sosteneva che dopo di lui non ci sarebbero più stati uomini di Stato, ma burocrati, passacarte

Riscrittura di tre saggi, pubblicati nell'ultimo decennio e qualificati nella bandella di copertina come «profetici», curioso caso di profezia in tempo reale, La politica senza politica soffre nel voler comprimere in un solo testo e insieme tener distinti, un'analisi del populismo, un'analisi della crisi della forma-partito, un'analisi della crisi economica. Restando al primo punto, è interessante notare come Revelli, riprendendo la tesi di John B. Judis, distingua un populismo di sinistra da uno di destra: il primo in difesa della gente contro un'élite o un establishment; il secondo difendendo il popolo contro un'élite accusata di covare un terzo gruppo: gli immigrati, per esempio, o gli islamici o, Judis è un politologo statunitense, militanti afroamericani. Nel primo si segue lo schema di un classico conflitto sociale, nel secondo interviene la figura atipica del capro espiatorio. È una lettura pertinente che però, nel riproporre la dicotomia destra-sinistra, non tiene conto che spesso e volentieri il cosiddetto populismo di destra è il frutto di populisti di sinistra, quelli che un tempo, al tempo cioè in cui c'era una sinistra, sarebbero stati definiti classe operaia, proletariato, gli umiliati e offesi da proteggere Non tiene anche conto che un'antropologia populista, proprio per la sua difficoltà a essere descritta, difficilmente si presta a suddivisioni così radicali, ma al contrario trae la sua forza dalla sua capacità contaminatrice. È insomma difficile vedere un cosiddetto populista di destra inveire contro gli immigrati e risparmiare però l'élite al potere, così come un cosiddetto populista di sinistra accogliere i primi senza però risparmiare quella élite che dell'accoglienza virtualmente si fa vanto. Incidentalmente va notato, e Revelli correttamente lo fa, che si è ormai di fatto attuato il paradosso che in Italia il partito considerato un tempo dei «meno abbienti», della «plebe che suda e che lavora» si è trasformato nel partito «dei privilegiati», una sorta di metamorfosi sociale per cui la Sinistra che fu oggi abita al centro e detta da lì i buoni comportamenti da tenersi nelle periferie

Qual è il rischio maggiore per il populismo? Sulla scorta di Slavoj Zizek, Revelli lo identifica nel suo essere «per definizione, un fenomeno negativo, basato su un rifiuto, persino un'ammissione implicita di impotenza», nel suo muoversi in un'arena trompe l'oeil in cui «le rivendicazioni politiche che non possono entrare nello spazio istituzionalizzato vengono disarticolate e disinnescate del loro potenziale impatto destabilizzante». Deriva da qui un rifiuto della complessità e il preferire «un suo surrogato riduttivo nella forma del conflitto contro figure pseudo concrete (dalla burocrazia di Bruxelles agli immigrati clandestini)».

Se così fosse, gli avversari del populismo non avrebbero di che preoccuparsi, una tigre di carte o poco più L'impressione però è che a un eccesso di semplicismo del populismo rispetto ai problemi concreti, corrisponda una sostanziale incapacità a riformarsi

delle élites politiche. Il problema insomma non è se i populisti saranno impossibilitati e/o incapaci a risolvere la crisi della democrazia, ma se la democrazia non sarà nel frattempo già morta. Un suicidio, non un omicidio.

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