I Protocolli dei Savi di Sion? Sono soltanto una porcata

Caro Granzotto, Pascoli: non è un invito ad andare a pascolare, bensì un richiamo al fatto che a far rimare «dolce paese» con «passato cortese» è il Pascoli e non il Carducci. La ringrazio per aver dato a quelli come me la soddisfazione di poter dire: «Per una volta ho colto in castagna il dottor Granzotto.». Approfitto per chiederle di ricordarmi la storia dei Protocolli di Sion.

Arnaldo Colombani e-mail


Sull’affaire Pascoli/Carducci ho già ammesso, domenica scorsa, quel che dovevo ammettere. Be’, sì, insomma, grosso modo. Sui «Protocolli dei Savi di Sion», invece, già scrisse impeccabilmente il nostro Massimo Introvigne. Però, siccome non c’è niente di più inedito della carta stampata, come diceva il grande Mario Missiroli, ci si può tornar sopra. Se dovessi definirle in due parole, non certo accademiche, i «Protocolli» le direi, caro Colombani, che sono un’interessante porcata. Interessante perché si tratta del primo impiego di un’arma poi rivelatasi di grande efficacia, la disinformazione. I «Protocolli dei Savi di Sion» - il piano ebraico per il controllo del mondo attraverso la manipolazione delle masse, il controllo della finanza e degli organi di informazione - sono, ed ecco la porcata, un falso. Ovvero non sono opera di un gruppo di «anziani» ebrei (i «rappresentanti di Sion del 33° grado», come si legge in calce al documento). Questo è assodato, questo è dimostrato. L’autore diciamo così ufficiale del libello antisemita fu un certo Sergei Nilus il quale, nella prefazione all’opera, affermava d’aver ricevuto quelli che erano gli atti di un congresso sionista tenutosi segretamente, da un Maresciallo di Corteche che a sua volta li aveva ottenuti da una donna che prestava servizio presso uno degli «anziani». Si venne poi a sapere che erano invece parto di alti funzionari della «Okhrana», la polizia segreta della Russia zarista, con l’intento di accreditare la tesi che i moti rivoluzionari - quelli che 14 anni dopo raggiunsero l’acme nel golpe di ottobre - fossero espressione di un complotto ebraico internazionale. Già nel 1920, a una neanche tanto attenta lettura risultò che i «Protocolli» erano un collage di espressioni, di formule e di stereotipi presenti in due precedenti pamphlets. Il primo, «Dialoghi agli inferi tra Machiavelli e Montesquieu», del francese Maurice Joly, prendeva di mira non gli ebrei, bensì Napoleone III, indicato come mente di una congiura internazionale che ricorreva a strumenti del tutto identici a quelli riportati nei «Protocolli». Il secondo, «Biarritz», del tedesco Hermann Goedsche, si rifaceva agli assunti di Joly, attribuendo però le mire di Napoleone III a un’assemblea segreta di rabbini. Ma non basta: in molti punti l’autore o gli autori dei «Protocolli» manifestano una conoscenza della cultura ebraica assai superficiale, certo non all’altezza di quella dei presunti Savi. Nonostante il pubblico, clamoroso sbugiardamento, il libello, tradotto in tutte le lingue, seguitò a riscuotere enorme successo. Da noi fu pubblicato nel ’39, a cura di Giovanni Preziosi e con un’introduzione (a onor del vero critica riguardo l’originalità del documento) di Julius Evola. Ma fu ovviamente nella Germania hitleriana che i «Protocolli» ebbero la massima diffusione e popolarità. Dopo la guerra, a un temporaneo disinteresse seguì un ritorno di fiamma e questo grazie all’interesse di molti governi arabi che dopo averne finanziato la stampa in milioni di copie, in certi casi imposero i «Protocolli» come libro di testo nelle scuole in quanto «documento storico». Qualche anno fa, la televisione egiziana ne fece anche uno sceneggiato, poi venduto ad altre emittenti arabe, che ottenne vertiginosi indici di ascolto.

Tutto ciò, va da sé, in nome del dialogo e della ricerca della pace.

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