Erano qui a Milano, in via Negri, al quinto piano di questo palazzo. Era il 1987, autunno forse. Tanto tempo fa, quando il Muro non era ancora caduto, Gorbaciov scommetteva sulla perestroika, lItalia diceva no al nucleare, una scelta emotiva con poco cervello. Craxi e De Mita litigavano sulla staffetta.
I ragazzi di questa storia hanno più o meno ventanni, quasi tutti studenti universitari. Si sono incontrati allAntica Locanda di Borghetto sul Mincio, un buon posto dove mangiare. Aspettano. Indro Montanelli sta per arrivare. È il loro primo incontro. Il vecchio giornalista è incuriosito. Si trova davanti un gruppo di ragazzi che lui credeva non esistessero in natura. Sembrano quasi figli di un altro tempo, unera lontana, forse nel passato, forse nel futuro. Comincia il dialogo. I ragazzi dicono di non avere tessere in tasca. Non hanno il poster di Che Guevara in camera. Non hanno nostalgie in camicia nera. Non hanno voglia di turarsi il naso e di votare Dc. Indro sorride.
«Siamo liberali», dicono. Montanelli quasi non ci crede. Liberali? E così giovani? Impossibile. È lusingato. È curioso. Se non fosse un vecchio scettico avrebbe la pelle doca. Li ascolta parlare. Avrebbe voglia di smorzare il loro entusiasmo, di dire: state attenti, essere liberali in questo Paese è quasi una condanna. Non dice nulla. Ammaliato dai nomi, dalle letture, che questi qui tirano fuori. Il suo Prezzolini, le prediche inutile di Einaudi e poi Del Noce, Revel, Spengler e il suo tramonto dellOccidente, Pareto e Montesquieu, Ortega y Gasset e Papini, Raymond Aron e Mircea Eliade, Pannunzio e Koestler, quel brontolone di Kipling e il pessimismo aristocratico e siciliano di Tomasi di Lampedusa. Montanelli pensa: è la mia biblioteca.
I ragazzi vogliono mettere su unassociazione vicina al Giornale, una scuola di formazione, un club, un piccolo avamposto ai confini della cultura italiana del tempo, dove la parola mercato è ancora una bestemmia. Il nome è un omaggio al Vecchio: «Controcorrente giovani». A cercar la bella destra di Paolo Avanti e Alessandro Frigerio (Mursia) è la storia dei «ragazzi di Montanelli» e del loro giornale parallelo, dei convegni, delle idee e di chi non aveva atteso il 1989 per riconoscere i meriti di Reagan e della Thatcher.
Una lettera al direttore: tutto comincia da qui. Umberto Moscato ha ventanni, è di Treviso. Ha molte idee, voglia di fare. È convinto che ci sia lo spazio, anche in Italia, per una cultura liberale meno rancida di quella che passa il Pli. Il 17 novembre 1987 scrive a Montanelli: «Il Giornale è sempre stato per noi una bandiera ideale, un simbolo di libertà e di anticonformismo, un amico (magari scomodo) da ostentare con fierezza e orgoglio nei momenti difficili; molto di più, quindi, di un semplice giornale. Cè chi compra un quotidiano per leggerlo, condividerlo e poi cestinarlo. Noi no: noi \ lo compriamo perché abbiamo buona memoria e non dimentichiamo che fu il solo quotidiano, in anni di contestazione e sbandamento, a tenere duro, a dire la verità sino in fondo, a non subire il fascino perverso di certe suggestioni collettive allora alla moda». Moscato fece a Montanelli una proposta: «costituire unassociazione indipendente il cui scopo è promuovere le idee del Giornale».
Montanelli non amava i «vecchi che per guadagnare popolarità tra i giovani ne seguono le mode e i modi, anche i più sciocchi. Io per diventare vecchio ho faticato settantotto anni e non vedo perché dovrei rinunziarci». Ma alla fine rispose a Moscato con un sì. «Se ne raccogli qualche decina avrai ottenuto un grande successo - scrisse - e ci avrai fatto un grande regalo». Moscato smentì con i fatti il pessimismo del Vecchio. Quasi tutti i lettori under 30 del Giornale pensavano di essere delle monadi, o quasi. «Pensavo di essere lunico di una certa età a pensarla così - racconta Ferruccio Gattuso, uno dei ragazzi di Montanelli -. Non mi sembrò vero di conoscere tanti che la pensavano come me, in barba al conformismo che soffocava le università italiane».
Avanti e Frigerio raccontano un pezzo di storia italiana vista, sembra, da un manipolo di dissidenti. Pochi anni, poco più di un lustro. Ma è langolo di lettura che interessa. È allincrocio tra gli anni Ottanta e Novanta che il gran ballo del Novecento tra zero e linfinito, tra utopia e nichilismo, tra idee troppo forti e idee troppo deboli allimprovviso si placa. E in quel momento cè la sensazione diffusa che i punti di riferimento non ci siano più. Non cè più né Est né Ovest. Qualcuno pensa addirittura che non ci sia più futuro, come se lorologio della Storia fosse fermo, incantato. E tutto ciò che sarebbe arrivato dopo sarebbe stato solo un residuo di tempo. Bisognerà aspettare una decina danni e un paio daerei contro due torri per ritrovare la croce dei venti. Solo che Est ed Ovest, punti cardinali geopolitici della guerra fredda, lasceranno il posto allOriente e allOccidente, direttrici di ere molto più lontane.
Lo sguardo di «Controcorrente giovani» cade in questa metamorfosi. I ragazzi di Montanelli cercavano, in realtà, un ancoraggio, un ritorno a valori in grado di navigare tra lutopia e il nulla. Forse cercavano dei padri. Forse cercavano qualcuno con il pelo da lupo solitario, da outsider di successo, come bandiera di un altro Novecento. Uno di quei personaggi fuori rotta che diventa padre nobile solo quando due onde del tempo si scontrano e si disperdono. Un frangiflutti tra due secoli. Montanelli aveva la faccia giusta.
Quando il Vecchio lascia Il Giornale per lavventura della Voce il circolo di «Controcorrente» si frantuma. La scelta di Indro lacera i suoi ragazzi e li divide. Forse non era più il tempo. Umberto Moscato, lanima di questa storia, non cera più. Era morto il 25 novembre 1992 in un incidente dauto. Aveva 26 anni. Montanelli lo ricordò scrivendo Il figlio che avrei voluto: «Umberto aveva la stoffa del cavallo di razza, dei numeri uno. La sorte, per chissà quali misteriosi calcoli - ammesso che la sorte segua dei calcoli - non ha voluto che lo diventasse. Mi sento come defraudato di qualcosa che credevo di meritarmi». «Controcorrente giovani» aveva perso il leader.
I ventenni del 1987, anche quelli che di questa storia non fanno parte, dovevano fare i conti con il proprio destino generazionale. Assaporare fino in fondo la maledizione, o il fascino, di unesistenza precaria. Gli ultimi figli del Novecento hanno avuto in dote un cammino senza bussola. E ormai avranno anche imparato a navigare a vista.
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