«I tibetani decideranno i loro metodi di lotta in base al comportamento dei cinesi e al livello della repressione... se continueranno a perseguitare e a massacrare il nostro popolo la scelta della non violenza si dimostrerà impossibile... a quel punto anche la violenza e la lotta armata diventeranno unopzione possibile. Il primo obbiettivo oggi è lottare per lindipendenza. Ogni altra scelta non è più sufficiente». Le parole di Tsewang Rigzin, presidente dellAssociazione della Tibetan Youth, Gioventù Tibetana, risuonano al telefono come una chiara ed esplicita sconfessione delle idee del Dalai Lama. Rigzin e i suoi «giovani leoni», tra gli organizzatori delle ultime marce in India, sono diventati in questi anni i protagonisti di tutte le contestazioni interne al governo tibetano in esilio, ed hanno manifestato apertamente contro la moderazione del grande «padre spirituale». Per Rigzin e i suoi militanti dialogare con Pechino non è solo inutile, ma persino dannoso, rifiutare la lotta per indipendenza equivale a commettere un peccato mortale, rinunciare al boicottaggio dei Giochi Olimpici significa consacrare tutti i peggiori errori dellultimo ventennio. Tuttavia Rigzin rifiuta decisamente le accuse di chi imputa a lui, al presidente del Parlamento in esilio Katma Chopel e a tutti gli altri esponenti della cosiddetta area radicale la responsabilità di aver messo il Dalai Lama con le spalle al muro, inducendolo a mettere sul tavolo la possibilità delle proprie dimissioni. «Noi non centriamo niente con quelle dichiarazioni spiega rispondendo dal suo ufficio di Dharamsala - il Dalai Lama ha parlato di dimissioni solo per rispondere alla Cina e a quanti lo hanno accusato di fomentare la violenza e i disordini».
Per il resto Rigzin - pur rifiutando lappellativo di «radicale» - non rinnega nulla. «Non sono un estremista, io e il mio movimento abbiamo semplicemente visioni diverse da quelle del governo in esilio, non crediamo più allefficacia delle loro tesi... negli ultimi ventanni la cosiddetta politica della via di mezzo ha regalato al nostro popolo soltanto frustazioni e delusioni, specialmente tra le giovani generazioni. Dopo sei anni di tentati negoziati e dialoghi con Pechino non è stato raggiunto alcun risultato». Oggi la parola dordine dei «giovani leoni» è abbandonare la via di mezzo per seguire il sentiero della piena e totale indipendenza. «La via di mezzo risulta totalmente superata soprattutto dopo la rivolta di Lhasa sostiene Rigzin - il nostro popolo sta chiaramente dimostrando di voler prima di tutto lindipendenza, fingere di non sentire la sua voce significherebbe perdere ogni contatto con i tibetani che vivono assediati dalla Cina». Lassociazione della gioventù tibetana guidata da Rigzin pur non essendo in grado di guidare la rivolta di Lhasa e delle altre città tibetane è forse in grado dispirarla. I disordini di Lhasa sono scoppiati in perfetta concomitanza con quella marcia dalla città indiana di Dharamsala al confine tibetano voluta e sponsorizzata dai leader ribelli. Uno dei principali obbiettivi di quella marcia come dei disordini in Tibet resta, secondo molti osservatori, il boicottaggio delle Olimpiadi. «La Cina non si merita i Giochi olimpici perché non ha rispettato alcuna promessa sui diritti umani. La situazione da quando le sono stati regalati i Giochi è soltanto peggiorata e non soltanto in Tibet ma su tutto il territorio. Oggi i primi a chiedere il boicottaggio sono i dissidenti cinesi.
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