Col senno di poi tutti i vizi sono consustanziali al genio: perfino l'ozio di Alessandro Magno - il giorno della battaglia non si alzava dal letto prima delle dieci, sbriciolando la bile dei suoi generali - è l'emblema della sua inimitabile strategia. Gli fosse andata male, non fosse arrivato di conquista in conquista fino alle rive gialle del Gange, beh, Alessandro il Grande sarebbe ricordato come un grande dormiglione, un grande idiota.
I vizi di Leonard Cohen sono i suoi romanzi. Lo sapeva anche lui. Noi sappiamo, invece, che se in quel 1966, viziato dalla letteratura, drogato di malinconie lisergiche, Leonard non avesse incrociato Bob Dylan, non si fosse sbattuto Janis Joplin - che lo aveva scambiato per Kris Kristofferson -, non avesse sbavato davanti al viso divino di Nico, sarebbe restato ciò che è, un romanziere potenziale di una nazione, il Canada, che dalla sua classe ha tratto scrittori ben più forti, Margaret Atwood, Mordecai Richler e Alice Munro, ad esempio. Col senno di poi, il vizio di Cohen - la letteratura - è ritenuto - e omaggiato - come la degna preparazione di un cantautore stupefacente. Ma dobbiamo al clamoroso insuccesso de Il gioco preferito (1963) e di Beautiful Losers (1966), scritto - parole sue - «sull'isola greca di Idra, in un periodo in cui mi consideravo un fallito, mi sentivo completamente sradicato, la mia vita non mi piaceva», se Cohen è diventato quello che è, il cantautore greve, il guru della canzone d'autore, quello di Suzanne, Hallelujah, Chelsea Hotel #2, Bird on the Wire, I'm Your Man. Col senno di poi, è ovvio, siamo tutti bravi a trasmutare i vizi in virtù: secondo Terry F. Rigelholf, «il primo romanzo di Leonard Cohen, Il gioco preferito... è risolto e avvincente nel catturare le ansie giovanili, come Il giovane Holden di J.D. Salinger», mentre per Michael Ondaatje, lo scrittore canadese che ha fatto il botto con Il paziente inglese, è Beautiful Losers «il romanzo moderno più affascinante e coraggioso che abbia mai letto». Nel 1966, pubblicato Beautiful Losers, Cohen chiuse bottega, cestinò l'attività di romanziere, scrisse Suzanne, si mise a lavorare al primo disco, Songs of Leonard Cohen. Il disco esce nel dicembre del 1967, in copertina Cohen sembra un esistenzialista francese preso a pugni da Camus, il New York Times ne parla come di «qualcosa tra Schopenhauer e Bob Dylan, due prepotenti poeti del pessimismo», è l'esordio di una carriera immensa.
Col senno di poi, occorre mettere un po' di senso del giudizio: i Romanzi di Leonard Cohen, ora in unico volume per minimum fax (pagg. 580, euro 18, traduzioni di Chiara Vatteroni e Francesca Lamioni), non sono semplicemente degli specchi in cui i fan contemplano il loro voluttuoso fanatismo. Restano libri irrisolti, ambiziosi, ambigui, redatti nella fucina dei beat, che rimestano i temi canonici di Cohen: innocenza e perdizione, carne e spirito, amore assoluto e tradimento assodato, ebraismo e bestemmia. Il gioco perfetto, in particolare, è il tipico Bildungsroman all'americana, dove Lawrence Breavman è l'alter ego dell'autore, ebreo nichilista e avido di vita in un mondo pieno di disperazione («Gli sarebbe piaciuto moltissimo aver ascoltato Hitler o Mussolini urlare rabbiosamente dal balcone di marmo, aver visto i partigiani che lo impiccavano a testa in giù; vedere gli spettatori di hockey linciare il commissario sportivo; vedere le orde nere o gialle prendersi la rivincita sui piccoli avamposti dei loro nemici coloniali...»), è il canonico romanzo della fanciullezza spaesata, nulla che non si sia già letto - e con miglior tenuta stilistica - in Truman Capote, in James Agee, in Isaac B. Singer.
D'altronde, Beautiful Losers, che mima Fitzgerald (Belli e dannati), e racconta, mescolata a un ménage à trois contemporaneo, la storia della santa irochese Catherine Tekakwitha, è costellato da belle frasi («Ho sempre voluto essere amato dal Partito Comunista e dalla Madre Chiesa. Volevo vivere in una canzone folk come Joe Hill. Volevo piangere per gli innocenti che la mia bomba era costretta a mutilare») e da buone intenzioni, ma è narrativamente sconnesso, pieno di un anarchismo formale già vintage a quel tempo, non s'avvicina, per dire, al William Carlos Williams di Nelle vene dell'America, ma neanche al Saul Bellow de Il re della pioggia e di Herzog. Più che altro, Cohen, che in quei primi Sessanta conosce Allen Ginsberg e incontra Glenn Gould, viaggia tra Cuba e la Grecia e frequenta, da dandy talmudista, la moda delle droghe, ha lo sguardo rapace del lirico. Ergo: per leggere i libri di Cohen vanno usate le forbici. Ci sono certi passi formidabili, nella marcia tediosa e narcisista, che andrebbero stipati in un'antologia. Questo, di Beautiful Losers, ad esempio. «Il cielo è molto estraneo. Non credo che dimorerò mai fra le stelle. Non credo che avrò mai una ghirlanda. Non credo che i fantasmi mi bisbiglieranno messaggi erotici fra i capelli caldi... Non credo che un santo riesca a dissolvere il caos neanche per se stesso, perché c'è un che di arrogante e bellicoso nel concetto che un uomo rimetta in ordine l'universo. La sua gloria sta in una sorta di equilibrio».
Sembra musica, pare il testo di una canzone. Cohen, d'altronde, aveva imparato l'arte del ritmo giovanissimo, leggendo García Lorca, s'era infatuato di Whitman e di William B. Yeats, aveva pubblicato il primo libro di versi, Let Us Compare Mythologies, nel 1956, poco più che ventenne. Il suo talento brusco, che continuerà a scrivere poesie, è benedetto da Irving Layton, «il poeta più grande, il nostro più grande campione della poesia», dirà Leonard. Cohen, che della poesia aveva capito molto («La poesia è un verdetto, non un'occupazione... La poesia è una cosa sporca, cruenta, rovente che all'inizio deve essere afferrata a mani nude», scrive ne Il gioco preferito), riconoscerà sempre in Layton, ebreo come lui, nato in Romania da genitori poi emigrati a Montréal, il suo maestro: «io gli ho insegnato a vestirsi - lui mi ha insegnato a vivere». Ma la storia, si sa, perdona i vizi soltanto a chi è infuocato dalla fama.
Di Irving Layton, poeta puro e vitalista, donnaiolo, nominato al Nobel al 1982, che passò fugacemente in Italia, si ricordano in pochi. Le poesie di Cohen vivono felici sulla cima della sua voce ferma, ferina e ferale, e i romanzi vengono rivalutati dai critici alla moda.
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