I sensi di colpa di Macron per il passato coloniale

L'Eliseo ordina un inventario delle opere delle ex colonie per restituirle. Ma i musei si ribellano

Marco Valle

Difficile, arduo considerare Emmanuel Macron un grande presidente o un politico accorto. A esser buoni l'uomo si è rivelato essere un pasticcione molto mal consigliato. Non a caso da mesi qualsiasi sua mossa viene puntualmente discussa, criticata, contestata. Dentro e fuori dai confini. Tra le tante polemiche scatenate dall'inquilino dell'Eliseo si è aggiunta in queste settimane la questione della restituzione ai paesi africani delle opere d'arte «trafugate» nel periodo coloniale. Un impegno solenne annunciato il 28 novembre 2017 a Ouagadougo (Burkina Faso): nelle intenzioni un gesto di buona volontà (a basso costo) teso a rinsaldare i rapporti con la «Franceafrique», nella realtà un intrico politico e culturale.

La faccenda, infatti, è ben complicata. Nei musei francesi sono conservati almeno 90mila pezzi di varia provenienza. Se parte delle collezioni sono verosimilmente frutto di spoliazioni e saccheggi, altri materiali provengono da collezioni di esploratori, antropologi, missionari, funzionari, amatori. Tutto frutto di rapine o scambi e acquisti legali? Insomma chi ha diritto a cosa?

Il problema è apertissimo e Macron è in grande imbarazzo. Un anno fa aveva affidato il dossier a Bénédicte Savoy e Felwin Sarr, docenti al College de France di Parigi e all'Università di Saint-Louis in Senegal, chiedendo un parere sulle possibili modalità. A dicembre scorso i sapienti, due accaniti vetero terzomondisti, hanno consegnato un rapporto in cui si raccomandava praticamente la restituzione dell'intero patrimonio museale. «Una follia» per Jean-Jacques Aillagon, ex ministro della Cultura, che paventa lo «svuotamento» delle esposizioni e annuncia ricorsi in tribunale. Molto critici anche i direttori dei vari musei: per Stéphane Martin, responsabile di Quai Branly, al massimo si può discutere di «prestiti, depositi, mostre». Sulla stessa linea anche Franck Riester, il macroniano ministro della Cultura che invece di restituire preferisce parlare di «circolazione delle opere e di prestiti a lungo termine». Intanto, la Costa d'Avorio ha già mandato la sua lista mentre il Senegal dove è stato appena inaugurato il Musée des civilisations noires a Dakar e il Benin si apprestano a farlo. Vista la mala parata il marito di Brigitte ha preferito archiviare il rapporto Savoy-Sarr rimandando ogni decisione a un prossimo convegno da celebrarsi con tutte le parti interessate.

A ingarbugliare ancor più la questione vi sono poi le reazioni internazionali. Americani, britannici e tedeschi hanno semplicemente snobbato la vicenda mentre gli olandesi si sono limitati a un vago impegno «a studiare tutte le domande di restituzione», ma solo una volta concluso l'inventario dei materiali racchiusi nei musei. I più preoccupati sono i belgi. Lo scorso 8 dicembre è stato riaperto, dopo cinque anni di lavori e 70 milioni di euro, il Musée Royal d'Afrique ora Africa Museum. Una ristrutturazione molto discutibile: le sale che negli anni Trenta avevano ispirato il disegnatore Hèrge per il suo Tintin au Congo (un capolavoro del fumetto oggi considerato «razzista e paternalista») sono state rimontate e trasformate seguendo una stramba logica di «decolonizzazione museale». Per molti si è trattato di un'inutile autocolpevolizzazione, per altri è ancora troppo poco e, alla fine, il re Filippo ha preferito disertare l'inaugurazione. Di certo anche per il «politicamente correttissimo» direttore Guido Gryseel, la proposta Macron rappresenta un guaio dato che il Congo ha subito reclamato l'immediato ritorno dei 180mila oggetti conservati nella capitale belga. All'angosciato Gryseel non è rimasto che chiedere tempo, tanto tempo, poiché «bisogna individuare cosa è stato acquisito legalmente, cosa illegalmente». È l'Italia? Vista la brevità della nostra storia coloniale non vi è nulla di paragonabile con le esposizioni straniere: a eccezione del Museo etnologico del Vaticano con i suoi 80mila pezzi, ovviamente intoccabili.

Va altresì sottolineato che l'unico vero contenzioso l'Italia l'ha risolto nello scorso decennio, grazie ai governi Berlusconi, con il ritorno in Etiopia del grande obelisco di Axum. Nel 1935, durante la guerra in Africa orientale, i nostri soldati ritrovarono il monumento adagiato a terra e spezzato in cinque pezzi e lo spedirono a Roma dove venne ricomposto ed eretto davanti all'allora ministero delle Colonie, oggi sede della Fao. Nel dopoguerra i romani si dimenticarono del colosso ma non gli etiopici che dal 1947 in poi ne chiesero inutilmente la restituzione. Sull'argomento però i governi democristiani per evitare scocciature e spese fecero per decenni vischiosa melina. Poi nel 2001 Alfredo Mantica, sottosegretario agli Esteri del primo governo Berlusconi incontrò il presidente etiope Meles Zenawi; l'antico capo della resistenza anticomunista cercava l'aiuto dell'Occidente dopo il disastro della guerra civile. «Stavamo discutendo dei rapporti italo-etiopici» racconta Mantica «quando Melis mi chiese a bruciapelo: Allora anche lei è qui per restituirmi l'obelisco a parole o posso sperare che il nuovo governo italiano mantenga gli impegni?. Gli dissi che se parlavamo di restituzione si sarebbe aperto un problema infinito e gli proposi riposizionamento, come se fosse un fatto tecnico. Era una sfida culturale: da vecchio missino credo nell'identità nazionale e comprendevo che Axum era un simbolo dell'identità etiope, mentre non aggiungeva e non toglieva nulla all'identità italiana».

Una decisione subito approvata da Berlusconi e ratificata il 19 luglio 2002 dal Consiglio dei Ministri. A parte il solito Sgarbi, nessuno si oppose alla rimozione e così l'obelisco tornò ad Axum a bordo di un gigantesco Antonov 124. Il 4 settembre 2008 venne rieretto con una cerimonia altamente simbolica. Mantica ricorda quel giorno con emozione: «La città era una festa di bandiere italiane ed etiopi, sui manifesti una mano bianca e una mano nera si stringevano.

Lui, l'oggetto di una storia durata più di 70 anni, era coperto totalmente da un lato dalla bandiera italiana e dall'altro da quella etiope. Tutta l'élite politica con Meles Zenawi era presente e fu con lui che tagliammo il nastro che teneva le due bandiere. L'obelisco era stato riposizionato e rieretto. L'impegno assunto era stato mantenuto».

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