La festa del Primo maggio porta alla mente battaglie combattute per la riduzione delle ore giornaliere, per il miglioramento delle condizioni di lavoro, per l'emancipazione di ceti che provenivano da secoli di fame e sofferenze. Anche se ha avuto la propria genesi nella Chicago già industriale degli anni Ottanta del diciannovesimo secolo, questa ricorrenza - nel nostro Paese - può pure evocare la Torino di Antonio Gramsci e Piero Gobetti in cui le masse operaie si pensavano (ed erano, in larga misura) un'avanguardia: nutrendo la speranza di scardinare una struttura sociale ancora troppo chiusa e gerarchica, nonostante il dinamismo impresso dagli spiriti più intraprendenti del capitalismo.
C'era una volta tutto questo, ma oggi lo scenario è altro. Il tono stanco che da decenni caratterizza questo rito sempre uguale a se stesso si spiega con il fatto che tale appuntamento, ormai, rappresenta l'autocelebrazione di organizzazioni sindacali che hanno bisogno di incensarsi da sole perché hanno perso credibilità, che si reggono sulle iscrizioni dei pensionati (i quali firmano l'adesione all'atto di compilare le pratiche previdenziali) perché i consensi tra gli operai e gli impiegati sono sempre meno, che difendono una maniera di concepire la società ormai tramontata.
Questo Primo maggio, soprattutto, è una festa senza giovani: e non a caso i sindacati utilizzano il miserevole trucchetto del concerto gratuito per portare in piazza chi diversamente non ci andrebbe.
Non si tratta solo di prendere atto di come i sindacati facciano parte di quell'insieme di istituzioni (dai partiti alla magistratura) la cui immagine è più che deteriorata. C'è soprattutto la constatazione che oggi il lavoro sta prendendo altre strade, lontane dalla militarizzazione fordista a suo modo eroica della prima industrializzazione, ma soprattutto da quell'irresponsabile espansione del settore pubblico che è stata la scommessa (perduta) del sindacalismo: in Italia e altrove.
Oggi che economie appesantite da burocrazie elefantiache e da smisurati prelievi fiscali e parafiscali arrancano sempre di più, è difficile immaginare che l'apparato di potere della Triplice rappresenti un riferimento per quanti non potranno insegnare perché chi li ha preceduti ha occupato ogni spazio, né seguiranno certo le orme del padre che lavora al Catasto o della madre che ha un part-time in prefettura. I giovani di oggi avvertono che il loro futuro è incerto perché chi li ha preceduti ha creduto alle favole della demagogia sindacale e della spesa pubblica: con il risultato di lasciare in eredità un'Italia arretrata, il cui debito pubblico supera il 100% del Pil.
Quanti oggi sono laureati in farmacia ma non possono aprire un'attività, laureati in legge e non possono fare il notaio, e neppure il tassista, difficilmente si sentono rappresentati da organizzazioni che per decenni hanno tutelato soprattutto gli status acquisiti, a scapito di chi è fuori del gioco: continuando a chiedere aiuti alle grandi imprese, ad esempio, anche se questo danneggiava il vasto tessuto delle realtà più piccole e spesso più dinamiche.
La demagogia di ieri sul posto fisso, che tanto continua a incidere sulle difficoltà dei giovani, è stata in parte sostituita dalla denuncia degli incidenti sul lavoro: e infatti è intorno a tale tema che i sindacalisti in queste ore vanno costruendo le loro omelie.
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