"I sindacati sbagliano, come nell’84"

Cazzola: "Non si può pensionare sotto i 60 anni, la demografia obbliga a fare il contrario"

Roma - Giuliano Cazzola è andato in pensione, lo scorso aprile, a «quota 113»: 66 anni d’età e quasi 47 di contributi. «Sarei rimasto al lavoro fino ai 67 anni, il massimo consentito a un pubblico dipendente - spiega - ma veniva a scadenza il mio mandato da presidente del collegio sindacale dell’Inps e non ho voluto chiedere un altro incarico a questo governo». La premessa serve per dire che Cazzola, uno dei massimi esperti di previdenza in Italia, è contrario ai pensionamenti anticipati, quelli che vengono definiti «d’anzianità» a 57 anni. Una battaglia di retroguardia che a Cazzola ricorda, in termini persin peggiori, il conflitto sulla scala mobile del 1984.
I sindacati perciò sbagliano a combattere per ridurre l’età di pensionamento anticipato rispetto ai 60 anni dello «scalone» fissato nella riforma Maroni?
«È evidente che i sindacati hanno torto, così come avevano torto nell’84. Non è più sostenibile né equo mandare in pensione i cinquantenni. Prima ancora che la finanza pubblica è la demografia a pretendere un innalzamento dell’età effettiva di pensionamento. La riforma Maroni, seppure con un salto iniziale brusco, va nella direzione giusta. Dico di più. Il governo ha presentato proposte di spalmatura dello scalone molto onerose, da un minimo di 2,5 miliardi a un massimo di 10 miliardi a seconda che nel 2008 si parta da 59 o 58 anni anziché 60, come previsto. Eppure i sindacati hanno rifiutato».
È per questo che lei parla di una situazione simile a quella del 1984? Anche allora era evidente il fatto che la contingenza alimentava l’inflazione, e il governo Craxi decise un intervento - tutto sommato modesto, anche se significativo - per tagliare tre punti di scala mobile.
«Era evidente che la contingenza produceva e consolidava l’inflazione. Eppure il Pci di Berlinguer volle scatenare una durissima campagna d’opposizione, trascinando con sé la maggioranza della Cgil. Allora il governo tenne duro e vinse, in Parlamento e nel Paese con il referendum. Ma era una compagine di uomini, non di quaquaraqua come l’attuale. Anche nel sindacato vi erano dirigenti responsabili: la Cisl di Carniti, la Uil di Benvenuto, la componente socialista della Cgil, guidata da Del Turco, seppero stare dalla parte giusta».
Invece adesso è tutto il sindacato a sbagliare?
«Purtroppo è così, anche se la Cisl cerca di distinguersi mentre la Uil di Angeletti chiede con insistenza una “proposta intelligente”. Ma del resto, che cosa potrebbero fare Cisl e Uil? Il governo, al tavolo del negoziato, ascolta esclusivamente la Cgil. Le altre parti sociali, compresa la Confindustria, fanno soltanto tappezzeria».
Eppure non si vedono visi sorridenti in corso d’Italia, sede della Cgil. Il segretario Epifani è continuamente scavalcato a sinistra da Rifondazione e dai comunisti di Diliberto, e si deve guardare dalle intemperanze della Fiom, il sindacato dei metalmeccanici. Non ha la sensazione che la «cosa rossa» voglia appropriarsi della Confederazione?
«La Cgil è in grande difficoltà. Il conflitto in atto con il governo non ha più reali né concrete motivazioni sindacali. La questione delle pensioni si è trasformata in una sfida aperta fra le anime della sinistra, ambedue in profonda trasformazione e in competizione fra di loro. La posta in gioco è la conquista del “granaio Cgil”, ovvero della più importante organizzazione della gauche che ha le strutture, gli uomini e le risorse. Il gruppo dirigente della Confederazione di Epifani è diviso tra chi sta con il Partito democratico (per il momento, è però una minoranza) e chi si è arruolato nella «cosa rossa». Se non si coglie quest’aspetto, il dibattito interno alla Cgil diventa incomprensibile. Epifani si è servito dell’ala “rosso-verde” - ad esempio con la lettera firmata dai quattro ministri della sinistra estrema - per condizionare il governo su pensioni e Dpef, ma adesso l’operazione gli sta scappando di mano. Il segretario chiede perciò al governo di avere una posizione unica, proprio dopo aver fatto di tutto perché ce ne fossero due: quella radicale e quella moderata».
Come finirà, Cazzola?
«Vorrei sbagliarmi, ma assisteremo a una vergognosa “calata di braghe” da parte del governo.

Hanno già fatto ogni possibile concessione, non gli resta nulla da scambiare. Né sono in grado di reggere a uno sciopero generale. Prepariamoci a una brutta figura in Europa e a un nuovo, importante squilibrio nei conti pubblici».

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