I soldi dello Stato cuccagna per i giornali di partito

Egregio dottor Granzotto, dopo aver letto l’articolo della giornalista A. M. Greco (il Giornale del 27.05 pag. 9) mi sorgono spontanee due domande a cui, spero, lei avrà la cortesia di rispondere:
a) per quale motivo e quale legge stabilisce che la carta stampata debba beneficiare di agevolazioni dallo Stato e, quindi, da noi cittadini (per giunta mi fa rabbia che parte dei miei soldi vadano a l’Unità, a Liberazione, giornali che non apprezzo)?;
b) quali sono i criteri adottati per cui l’Unità riceva contributi di gran lunga superiori ad altri giornali?



La legge che dispone il finanziamento pubblico della stampa di partito venne votata (1987), caro De Maria, per affermare il «diritto alla comunicazione politica come manifestazione della libertà di pensiero» e per «favorire il pluralismo». E bisogna ammettere che per favorire, l’ha favorito facendo da levatrice a cinquanta-sessanta movimenti politici, più della metà dei quali con diritto a ricevere contributi per i loro giornali. In verità, da principio solo i partiti rappresentati in almeno un ramo del Parlamento beneficiavano di quella manna (che costa, a noi contribuenti, una settantina di milioni di euro all’anno). Ma ritocco dopo ritocco, emendamento dopo emendamento, divenne sufficiente formare un movimento costituito da almeno due parlamentari (nazionali o europei) e il gioco era fatto.
Va da sé che nel mangiamangia la parte del leone la fanno i veri e propri organi di veri e propri partiti e fra questi, quella del superleone la fa l’Unità che si pappa annualmente tra gli otto e i nove milioni di euro (i contributi sono proporzionati al consenso elettorale del partito). Però ce n’è per tutti, indipendentemente dalla diffusione dell’organo sovvenzionato, dello strumento della «comunicazione politica» e della «manifestazione del pensiero».
Destò un (fugace) scandalo il caso del Popolo, già gloriosa gazzetta della Democrazia Cristiana, che pur ricevendo un contributo di 6 miliardi di lire vendeva nelle edicole una ventina di copie al giorno (e mille 306, va doverosamente aggiunto, in abbonamento). O quello della Voce Repubblicana, 3 miliardi per finanziarne la clandestinità. Ma il vero oltraggio al pudore civile sono le barcate di soldi finiti nelle casse di giornali che si son fatti, con la complicità d’un paio d’amici parlamentari, organi di movimenti. È la proliferazione di oggetti misteriosi - ma sovvenzionati lautamente - quali Il Denaro, organo del Movimento Europa Mediterranea, Milano Metropoli, organo del movimento omonimo (mi pare che sia sovvenzionato anche il «Movimento per la Dignità del Parlamentare e il rispetto della volontà dell’elettore». Mica male, eh?) e decine d’altre stravaganti testate. I cui editori, chiamamoli così, si dividono in due categorie: quelli che ammettono di approfittare, legittimissimamente, di una legge votata dal Parlamento con ampia maggioranza trasversale destra-sinistra e quelli che con prosopopea la buttano sui Diritti, i Valori e sulle maiuscole in generale. Meglio i primi.
Tre anni fa sembrò che la cuccagna dovesse cessare. L’allora governo Amato varò infatti una legge che tornava a limitare i contributi ai giornali di partito rappresentati alla Camera o al Senato e con relativo gruppo parlamentare.

Ma non ci si chiama Dottor Sottile a caso: un comma - il solito comma - della legge stabiliva, ma guarda tu, che se si fossero trasformate in cooperative, le testate che già godevano dei contributi avrebbero continuato a intascarli. Crede lei, caro De Maria, che una sola abbia rinunciato a cambiare ragione sociale?
Paolo Granzotto

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