Cultura e Spettacoli

I soliti classici dei Dire Straits, ed è festa

Ma il momento più originale della serata è stata la parentesi con fisarmoniche e strumenti acustici

Antonio Lodetti

da Milano

Se fosse un giocatore di calcio sarebbe sicuramente Pavel Nedved piuttosto che Ronaldinho. Mark Knopfler infatti è cantante-chitarrista-autore elegante e concreto capace di trascinare da solo la sua «squadra»; è in grado di emozionarvi, di far vibrare le corde del cuore ma non chiedetegli di stupirvi col «numero», col colpo a sorpresa del fantasista. Lui è così, è sempre stato così e non cambierà certo passata la boa dei 55; e anche i suoi fan lo vogliono così, a giudicare dalla calorosa accoglienza che ha salutato i primi due concerti del suo tour italiano venerdì sera nello strapieno Forum di Milano e ieri a Villa Pisani di Strà, provincia di Padova (stasera è a Firenze, domani a Roma, martedì a Napoli e mercoledì a Reggio Calabria).
La sua musica, sempre in perfetto equilibrio tra rock e ballata sofisticata, non ha mai inseguito ansie giovanilistiche e mode commerciali. Mark ha creato il suo stile (e lo stile Dire Straits) e continua a portarlo in giro, distillandone campioni ad ogni show e trasformando i concerti in un piccolo Bignami della sua opera. Capelli sempre più bianchi, occhi azzurri sempre più melanconici, Knopfler infiamma i ricordi di una generazione di ragazzi ormai adulti che portano già i figli a scuola. Lui è coerente fino all’ultimo, i fan un po’ nostalgici. Così in scaletta ci sono solo due o tre brani dal suo ultimo album Shangri-La. Il resto è storia. Anzi la sequenza iniziale dello show milanese è molto simile a quella del 2001 (il tour del 2003 saltò per un incidente motociclistico che lo ridusse piuttosto male); allora attaccò con le cadenze country di Calling Elvis, ora parte con l’incedere folkeggiante della meno nota Why Aye Man, per poi ripetere, con nuovi arrangiamenti più briosi, Walk Of Life con accompagnamento di organetto (uno dei brani più apprezzati)e What It Is.
Mark Knopfler, il «geordie» (come vengono chiamati scozzesi e inglesi del nord) riscopre le radici americane con la cavalcata chitarristica di Sailing to Philadelphia, il brano (e il disco) ispirato dal romanzo Mason & Dixon di Thomas Pynchon, la storia dei due inglesi che tracciarono la linea di confine destinata a dividere gli Stati americani del Nord da quelli del Sud. Qui si assapora la sua tecnica unica ed esemplare; la mano destra che ricama accordi e assoli senza plettro, percuotendo le corde con il pollice, l’indice ed il medio. I colori e i timbri dello strumento che, combinati con la voce scura, danno alle canzoni un sapore ora cupo ora estremamente romantico.
Neppure il tempo di ambientarsi e la sala è già surriscaldata; ci pensa Knopfler a portarla ad ebollizione con il colpo basso della indimenticabile Romeo and Juliet seguita da Sultans of Swing. Che gioia per i fan, che trionfo per Mark. Un trionfo dal sapore dolceamaro però, perché le ombre del glorioso passato rischiano di oscurare l’ottimo presente di Mark: il momento più originale e inedito dello show è quello vissuto con maggiore freddezza. La parentesi acustica - con Mark alle chitarre e al dobro e su tutti lo splendido Matt Rollings ora alla fisarmonica ora al bouzouki - fatta di piccole gemme come Done With Bonaparte, Rüdiger e la nuova ed emozionante Song For Sonny Liston non è seguita con la dovuta partecipazione emotiva. Piace, è vero, l’ultimo singolo Boom Like That con i suoi arpeggi sornioni, ma per far esplodere di nuovo il Forum ci vuole il bis con Money For Nothing e Brothers in Arms (scritta per la guerra nelle Falklands) dall’omonimo album dell’85 dei Dire Straits.

Meditaci sopra, caro Knopfler, anche i grandissimi non possono vivere di sola rendita.

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