Sul Corriere della Sera si scrive della necessità che il centrosinistra si dia un programma chiaro e definito. Vengono pubblicati articoli spesso intelligenti e di qualità. Tra gli altri di Angelo Panebianco, Michele Salvati e Dario Di Vico. Si fa così anche un bel danno ai seguaci di Romano Prodi che convinti di avere conquistato definitivamente l'attenzione, sia pur critica, dell'establishment, ritengono di avere già vinto le elezioni. In realtà quel che pensa il ristretto establishment italiano certamente fa impressione alla più ampia massa elettorale. Ma un'impressione non sempre bella.
A parte ciò che giova o meno al centrosinistra, desta, comunque, stupore che il maggiore quotidiano nazionale, che se la dava da terzista sino a qualche mese fa, tratti la questione del programma dell'opposizione con uno stile più da frazione interna a uno schieramento, che da osservatore. Tra lo stile di un intervento, ospitato sulle pagine del quotidiano di via Solferino, dell'economista di riferimento di Massimo D'Alema, Nicola Rossi, e quello di tanti opinionisti corrieristi, quello più libero sembra talvolta il parere dell'ex consigliere economico di Palazzo Chigi.
Si è già osservato che nella scelta editoriale di sviluppare una discussione tutta interna alla sinistra, si coglie il tocco geniale di Paolo Mieli, che così strappa alla rivale Repubblica il monopolio dell'agenda politica e detta, affrontando il programmismo prodiano, i tempi.
Non si tiene ben presente, però, quanto si generi con questa impostazione un effetto delusione (se ne scriveva all'inizio dell'articolo), presentando alla più larga opinione pubblica una discussione tutta interna a uno schieramento e di fatto a un establishment, apparentemente disinteressato del fatto che bene o male metà dell'Italia voti per il centrodestra. La storia italiana, peraltro, è una storia di élite senza popolo. È vero che in tutte le stagioni della breve storia nazionale, chi governava non poteva non porsi la questione del consenso popolare. E soprattutto i democristiani, i loro voti se li sono sempre cercati con infinita pazienza. Però la disattenzione delle élite ai sentimenti di fondo del popolo, è stata a lungo l'atteggiamento prevalente: anche perché a consentirla ci sono state prima la restrizione del diritto di voto, poi il fascismo, infine le compressioni dei comportamenti elettorali imposte dalla guerra fredda. Ora questa stagione è finita.
Verso questi elettori, piccoli imprenditori, bottegai, portinaie, che pretendono di contare con il loro suffragio, affezionati alla volgare regoletta di «un uomo un voto», è rimasta, però, una qualche insofferenza di settori di una borghesia (economica e intellettuale) che ha faticato e fatica a diventare classe dirigente.
E quando ce n'è l'occasione il vecchio vizio elitista riprende il sopravvento, escludendo d'amblé metà del Paese dal novero di quelli che meritano educata attenzione alle loro idee e sentimenti.
Certo, il tipo di capitalismo italiano, con la centralità che ha ancora lo Stato, con un sistema bancario decisivo nell'economia ma scarsamente governato dalle regole della competizione (e invasivo direttamente o indirettamente del sistema dei media) spingono ad anteporre le questioni di chi sarà il ministro del Tesoro, chi il governatore di Bankitalia, chi il presidente di Authority magari ridisegnate per le necessità del nuovo governo, all'esigenza di riflessioni più aperte su quel che ha bisogno e quel che pensa l'Italia. L'ansia, però, di definire nuovi equilibri di potere può talvolta giocare brutti scherzi. Anche a sperimentati giornalisti.
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